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Nome: Alberto Longo Data: 23-01-2004 Cod. di rif: 866 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Cera neutra Commenti: Egr. Cavalieri e Simpatizzanti, Vorrei aprire questo mio primo gesso con un esplicito ringraziamento al Cavalier Forni per la sua segnalazione. Da tempo infatti cercavo un punto di riferimento negli articoli per le calzature e il negozio dei F.lli Sanvito a Milano e' un piccolo tempio del genere. Sono importatori, come segnalava appunto Forni, della AVEL, che produce straordinari cere e lucidi per calzature con marchio SAPHIR. In particolare consigliano la linea nei vasetti neri, che credo si chiami MEDAILLE D'OR 1925, con cera d'api, di carnauba e quant'altro. Sono cere che appaiono subito preziose per l'aspetto, morbido e cremoso e il profumo che rimanda a legni e cuoi esotici. Le sto provando da non molto e i risultati, almeno nel breve periodo, sono piu' che confortanti, con buona pace delle Meltonian. In merito alla cera neutra, poi, i Sanvito consigliano una sospensione, la Re'no'Mat sempre della Saphir, con una azione decerante molto efficace ma rispettosa della pelle (confermo), che asporta ogni traccia dei vecchi prodotti e prepara la scarpa in modo ideale per la nuova ceratura. Potrebbe essere un'alternativa a prodotti di meno facile reperimento. Lascio al Cavalier Forni, la cui passione ed esperienza mi e' tanto di conforto su queste ardesie, l'onore di reiterare il prezioso recapito dei Sanvito. A tutti i migliori saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 18-04-2004 Cod. di rif: 1092 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Un ringraziamento Commenti: Su questa lastra vorrei imprimere il mio grazie riconoscente a quanti hanno reso straordinario l'incontro di venerdi scorso a Pratrivero. In primis all'ineffabile Gran Maestro, trama ed ordito di ogni Evento, a Francesco Barberis Canonico, impeccabile anfitrione della giornata e a suo zio Alberto Barberis Canonico, il superesperto che solo la tirannia dell'agenda ha sottratto anzitempo alla nostra insaziabile sete di conoscenza di lane e tessuti. Quindi al disponibilissimo personale dell'Azienda e ai tanti Cavalieri ed Ospiti, che hanno arricchito con la propria presenza l'incontro, consentendo anche ad un semplice simpatizzante come me di godere dei frutti di irripetibili esperienze. Un unico rammarico: non c'e' stato materialmente il tempo per visitare l'archivio della ditta, che mi dicono favoloso ma Spes Ultima Dea: ci sara' un altro incontro? Ancora grazie a tutti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 24-06-2004 Cod. di rif: 1380 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Calzature Alden a Milano Commenti: Egr. Sig. Giona Valerio Granata, Credo che le sue ricerche potranno trovare soddisfazione da Pellux, in Via Agnello ang. Ragazzi del '99 a Milano, in pieno centro storico (Tel. 02864104 - info@pellux.it). Potrei sbagliarmi ma mi sembra che anche ILLIPRANDI, P.zza San MArco 1 - Tel. 0229000580, tenesse Alden: probabilmente già lo conosce, in caso contrario, se anche non dovesse trovare la marca statunitense, vedrà che non sarà un viaggio sprecato. Mi faccia sapere. Con i migliori saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 11-08-2004 Cod. di rif: 1511 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Suggestioni di mezza estate ovvero frammenti sparsi sull'uls Commenti: Primi temporali d'Agosto: l'aria rinfresca, la bella stagione si avvia alla fine e con un brivido ci scuotiamo dal torpore della canicola per riprendere, con rinnovata determinazione, a scandagliare con la mente il guardaroba che abbiamo lasciato in città. Non possiamo indugiare ancora molto o la non lontana stagione fredda ci cogliera’ impreparati. E proprio la’, fra il cappotto scuro e l'impermeabile, scorgiamo un vuoto doloroso che attende da tempo di essere colmato… Cerchiamo allora impazienti la vecchia rivista sgualcita (1), che da qualche parte sara' pur finita, con quella foto che ci aveva colpiti: e finalmente la troviamo. Il paletot ulster riemerge allora come immagine (v. Taccuino N. 906) e si concretizza come desiderio:"Si tratta di una rivisitazione quasi filologica del paletot di fine ‘700”. “Collo ampio, doppiopetto, tasche tagliate a ‘buca da lettere’‚ sfondo piega che parte dal collo, martingala importante. E la severa, maschilissima abbottonatura che si chiude fino al mento", cosi' almeno recita la didascalia per questo capo color cammello di Mario Caraceni. Dell'ulster non troviamo in verita’ molto altro: tralasciando il dizionario Zingarelli, per il quale e’ un lungo mantello da viaggio con cintura e mantellina , in voga alla fine del XIX sec. e agli inizi del XX (2), per B. Roetzel (3) e’ solo un modello tradizionale e piuttosto elegante, strettamente imparentato con il Polo, il paletot e il Guardscoat. Per G. Mendicini (4) un parente stretto del raglan -per ampiezza e lunghezza- che ha pero' il giro manica verticale, un colletto molto piu' grande e la martingala. Il compunto O. Lenius (5) ci informa invece che:" The Ulster was a heavy tweed overcoat, full and belted, with a detachable hood, introduced by a Belfast firm in th 1860s. Thirty years later, the ‘Tailor and Cutter’ advised that ‘no gentleman's wardrobe is complete without an Ulster’. Oltre un secolo dopo, anche a noi piacerebbe che fosse ancora cosi’. La raffinata Tatiana Tolstoi (6) enuncia sicura:" L'ulster, poi, è cosi' famoso che si finisce con non vederlo nemmeno piu' (sara’! n.d.r.). Peccato. E' un cugino del raglan, ampio e lungo come lui, ha il collo largo e si puo' portare con la cintura o la martingala. Cosa lo distingue dal raglan? Il giro manica, il quale e' soprattutto verticale, come nelle giacche e nel chesterfield che vedremo di seguito. Immaginate di indossare un ulster beige di pelo di cammello e ditemi dove siete. Ma in campagna, naturalmente!" (per come rappresenta l’ulster la Tolstoi v. Taccuino N. 907). A questo punto non ne sappiamo molto di piu' e se non trovassimo sconveniente scomodare il Gran Maestro con questo caldo, a lui ci rivolgeremmo per una delle sue illuminanti analisi stilistiche sull’ulster in generale e sul cappotto di Caraceni in particolare: ma chissa’, forse un temporale rinfreschera’ anche dalle sue parti… Cerchiamo intanto di rifletterci su: e' un capo piuttosto elegante o da usare in campagna (sebbene le due categorie non siano forse antitetiche)? Pensiamo, in verita’, che un cappotto come quello di Caraceni oggi si possa (si vorrebbe?) orgogliosamente indossare anche in citta’, in situazioni non formali, ma dalle note del Lenius e dalle mai banali osservazioni della Tolstoi possiamo forse distillare un succo: e’ un modello che rifugge dalle lane piu’ leziose e si esprime invece compiutamente con tessuti piu’ virili. Quindi niente pregiatissimi velli di casimiro o peggio impalpabili manti di vicuña (chiunque abbia visto questi flessuosi camelidi dagli occhi di fanciulla scorazzare per gli altipiani andini, non puo’ che fremere all’idea che venissero uccisi per rubargli pochi grammi di sottopelo prezioso come l’argento!) (7). Meglio dunque lane di pecora o forse, e qui potrebbe illuminarci il sapiente Dante De Paz, il mongolico cammello, dallo sguardo impenetrabile e antico. E gia’ che abbiamo scomodato il Grande Bolognese vorremmo chiedergli anche se, a suo giudizio, un modello come l’ulster potrebbe aspirare ad entrare nella categoria da lui creata del Classico Internazionale. Ci piace concludere proponendo una riflessione di I. Comi (8) a proposito proprio di un ulster della stessa sartoria (v. Taccuino N. 908 ):"Dicembre 1999. Ho visto un meraviglioso cappotto di Caraceni... , un modello ulster di pesante lana blu, con degli splendidi bottoni di corno della prima meta' del '900, lucidati a mano e con cuciture incrociate. Caraceni ha sposato l'oro alla mirra. Lo scopo di questo caldissimo cappotto non e' di proteggere il suo proprietario dal freddo, ma di renderlo invulnerabile agli strali dell'Ignoto." Una riflessione che molti condivideranno. Da un’affocata Milano i migliori saluti a tutto il Castello, Alberto Longo P.S. Ma alla fin fine, addosso che effetto fa questo cappotto, potremo domandarci: vediamolo indossato dal Sig. Marco Marrocco Trischitta, in una sua foto pubblicata su Monsieur dell’Ottobre 2000, reperibile nella sezione Florilegio Stampa, “L’Eleganza e’ un filo lungo 1.920 Km”. (9) Bibliografia: 1- Gentleman, Elogio della rarita’, Numero 38 , pag. 70, Aprile 2004 2- N. Zingarelli, Il Nuovo Zingarelli, Zanichelli, Milano 1990 3- B. Roetzel, Il Gentleman, Koenemann, Koeln 1999 4- G. Mendicini, L'Eleganza Maschile, Mondadori, Milano 1996 5- O. Lenius, A Well-Dressed Gentleman's, Prion, London 1998 6- T. Tolstoi, Manuale di Eleganza Maschile, Sonzogno, Milano 1988 7- D. De Paz, Manuale dei Tessuti, Bologna 2004 8- I. Comi, Conversevole Week-End sull'Eleganza MAschile, Stefanoni 2000 9- M. Marrocco Trischitta, L’eleganza e’ un filo lungo 1.920 km, Monsieur, Ottobre 2000 ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 12-08-2004 Cod. di rif: 1520 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Ringraziamenti al Sig. De Paz Commenti: Stimatissimo Sig. De Paz, La ringrazio per l'esauriente e tempestiva risposta ai quesiti sull'Ulster, che da un lato attribuisce a questo rilevante capo la dignità di un Classico Internazionale, dall'altro meglio chiarisce quali siano i fondamentali del modello in questione. A tal proposito è interessante notare come anche ricostruzioni definite "quasi filologiche" da parte di nomi illustri, non siano esenti da possibili critiche all'occhio dell'esperto. Ciò mi conferma della necessità costante di verificare quanto riportato dai testi, fonte amio avviso comunque irrinunciabile, con la somma di cultura ed esperienze di chi, con la materia, ha pratica pluridecennale. Solo il Fato potrà impedirmi di essere in Ottobre a Bologna e il poter esaminare degli ulster con le carte in regola sarà un ulteriore motivo di interesse per far visita al suo Regno. Solidale nell'afa, i migliori saluti a lei e al Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 01-12-2004 Cod. di rif: 1806 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: un giorno un'estate Commenti: Due di Luglio, il prossimo anno. Sole. Minuscola pieve romanica, dalle bifore millenarie si intravede il Lago Maggiore. Dentro, fiori pastello e penombra. Sui gradini un giovane uomo visibilmente turbato aspetta qualcuno, in piedi. Scorrono interminabili gli attimi in cui nulla è già successo e tutto può ancora accadere... Bella, da togliere la parola, arriva la sposa. Questa scena mi scorre continuamente davanti agli occhi da quando un amico, giorni or sono, mi ha chiesto più di un consiglio: un piano preciso! Su come vestirsi in quel giorno fatidico. Prima d'ora si era sempre rivolto alla confezione ma per quell'occasione unica vorrebbe un capo che lo fosse altrettanto, su misura. Premesse da far tremare i polsi, ma non posso rifiutare un aiuto e non posso permettermi di sbagliare. Si può sbagliare a vestirsi al proprio di matrimonio (e difatti al mio sbagliai: ignoranza, presunzione, giovinezza....) ma NON si può far sbagliare un amico! Così mi sono riletto tutto, o quasi tutto, quello che queste annose lavagne riportano sull'argomento e una prima idea me la sono fatta, materiale ce n'è in abbondanza. Qualche dubbio però mi è rimasto e così mi appello alla G. S. C. (Grande Sapienza Collettiva) dell'Ordine e dei Frequentatori per avere lumi aggiuntivi. Il matrimonio si terrà a metà pomeriggio, sarà un matrimonio medio-borghese, di tono non eccessivamente formale ma verosimilmente senza sbracature, il clima sui Laghi in estate può essere caldo o, come nell'estate scorsa, addirittura tropicale (temporali compresi); il tight è stato escluso in partenza. Vi esporrò le poche idee, ma confuse, che ho al momento, sperando in un tempestivo e critico soccorso e scusandomi se la cosa si configura più che altro come un elenco di dubbi. Pensavo ad un abito grigio scurissimo, con giacca a un petto (il nubendo non ama il doppiopetto) e pantaloni senza risvolti. Da qui in poi le incertezze: personalmente la giacca me la farei fare a due bottoni, sia per il tono meno lavorativo rispetto a quelle a tre bottoni sia perché, essendo luglio, risulterebbe un poco più aperta e quindi presumibilmente più fresca. Foderata solo alle spalle e alle maniche o, almeno, sfoderata posteriormente. Tasche a filo, senza pattina. La farei senza spacchi posteriori, avrebbe forse un'aria più da cerimonia, sebbene anche con i due spacchi posteriori mi sembra più che accettabile. Malgrado la stagione, ci aggiungerei un gilet a sei bottoni, quattro tasche (o due?) con pistagna, che darebbe all'abito un aspetto assai più composto e consentirebbe di usare le bretelle senza eccessive esposizione di tiranti. Pantaloni senza passanti, senza risvolti, pinces doppie, tasche oblique (o sulla cucitura laterale?). Dove però i dubbi diventano tormenti è sul tessuto più opportuno e qui mi appellerei senz'altro al Magnifico Rettore di questa Porta, chiedendogli di squarciare le tenebre: Mohair (Summer Kid)? Pettinati ritorti secchi e nervosi con trame a tela? Che altro, Magnifico? Per concludere: camicia ovviamente bianca, polsi doppi con gemelli, fazzoletto da taschino in batista di lino, scarpe francesine nere, con punta liscia soprammessa. Bretelle con tiranti bianchi o comunque chiari, agganci in gros grain (a proposito: mi sembra di ricordare di aver letto una volta il nome italiano -curiosissimo- degli agganci delle bretelle. Qualcuno sa se abbiano effettivamente un nome specifico?). Detto questo, detto niente, me ne rendo perfettamente conto, potremmo disquisire a lungo se le cifre della camicia debbano o meno avere i pedicelli e del materiale dei lacci delle scarpe ma insomma, la sintesi infine deve prevalere sull'analisi per cui la domanda è: mandereste un vostro amico, conciato in siffatto modo, a compiere il passo più importante della sua vita? A voi l'ardua sentenza a me l'onore e l'onere di far tesoro dei vostri consigli e il piacere di ringraziare sin da ora chi vorrà sprecare del tempo per tenderci una mano. Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 11-12-2004 Cod. di rif: 1829 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Come l'Araba Fenice... Commenti: E’questo "Cuoio di Russia": a partire dal nome stesso, che in alcuni testi è indicato come “cuoio bulgaro”, il che già avvolge nelle caligini dell’incertezza le origini di questo materiale da leggenda, situandole in una landa alle porte più orientali d’Europa: quasi fossimo in una ideale Bastiani a scrutare l’orizzonte in attesa dei Tartari! La vastità della Santa Madre Russia e l'imperscrutabilità della Bulgaria, oltretutto di due secoli fa e con quel che c’è stato in mezzo, sembrano rendere la possibilità di rintracciare le concerie (ammesso e non concesso che esistano ancora) o di ricostruire i metodi di concia utilizzati, a dir poco aleatoria. I gessi e i taccuini da poco apparsi in questa Porta sono tuttavia un fascio di luce che squarcia le tenebre del tempo e dell’ignoranza e sfido qualunque appassionato a negare di aver provato un brivido quando “l’occhio di bue” ha crudamente centrato l’ineffabile francesina di Cleverley, donandole la concretezza di un oggetto reale e non solo letterario come quelle viste finora. Ma avara di notizie è anche la letteratura, in questo caso, almeno la poca che ho sottomano: il solito Mendicini ci informa solo che “sono in pratica scomparsi dal mercato il raffinato cuoio di Russia (o bulgaro) e l’autentico daino” (1), mentre Ivana Malabarba, a proposito di una Derby “Fiorellini” della collezione di Orio, scrive che è “resa ancor più preziosa dal materiale, il mitico cuoio bulgaro o cuoio di Russia, apprezzatissimo da sempre e oggi praticamente introvabile.” (2). Poche righe in più, ma che non aggiungono gran che a quanto è già stato scritto troviamo nel bel libro di Làszlo Vass e Magda Molnàr, che a commento della fotografia di una francesina di Klemann chiosano “è stata realizzata con pelle conciata più di due secoli fa. Nel 1973, infatti, alcuni sommozzatori della sezione archeologica di un club di subacquei di Plymouth trovarono la campana di una nave a trenta metri di profondità nello stretto di Plymouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. La campana si rivelò poi appartenere alla Metta Catherina, una nave proveniente dal Porto di Flensburg, all’epoca danese, e affondata nel 1786 durante una tempesta (vedi cartina sopra). La nave trasportava pelli di renna (?!) conciate a San Pietroburgo col metodo vegetale.”(3) Unanimi quindi i giudizi espressi sul materiale, descritto all’unisono come raffinato, prezioso, introvabile, mitico e così via, attributi da far apparire il cordovano un ripiego dozzinale. Mi restano tuttavia dei dubbi: ma è vitello o renna? O è indifferente l'animale e quello che conta è la concia? La definizione di “bulgaro” è attendibile? E se sì, a cosa si riferisce, forse ad una duplice origine russa e bulgara? Inestimabile tuttavia la notizia -che poteva provenire solo dall’Ordine- che ne esistano ancora delle pelli e con esse la possibilità di farsi confezionare delle calzature. Sperando, per il futuro, che dall’alto della fortezza dei Cavalieri si veda meglio che da quaggiù e col tempo si possa ripercorrere una “Via del Cuoio” che da Londra si diriga a San Pietroburgo e da lì chissà dove. Inserisco nei Taccuini alcune foto a commento, scusandomi per la qualità non eccelsa delle riproduzioni. Bibliografia: 1 – G. Mendicini, L’Eleganza Maschile – Guida Pratica al Perfetto Guardaroba, Mondatori, Milano 1996 2- I. Malabarba, La Scarpa Maschile, Idealibri, Milano 1995 3- L. Vass e M. Molnàr, Scarpe da Uomo Fatte a Mano, Könemann Verlagsgesellschaft mbH, Köln 2000 Con i migliori saluti al Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-12-2004 Cod. di rif: 1833 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Sembrava esterrefatto Commenti: Anche lo splendido montone Merinos ritratto a tutta pagina: la Loro Piana ha pubblicizzato ieri sui quotidiani di aver acquistato in Australia una balla della lana merina più sottile mai prodotta: 11,8 micron la finezza della fibra. Se si pensa che la sottigliezza media di questa lana è di 18-20 micron, si può capire a cosa si è giunti con la selezione e le tecniche di allevamento. Si consideri, per confronto, il diametro dei filati più preziosi: la lana di cammello ha una sottigliezza di 17 micron, quella della capra del Cashmere 10-15, quella della Vicuña, la più fine utilizzata, arriva ai 7 micron ma ha una media di 13 (1). La balla di lana in questione, essendo la più fine mai prodotta, secondo la tradizione non verrà utilizzata ma consentirà di utilizzare la più sottile ottenuta fino a quel momento, che è di 12 micron, il che secondo l’azienda permetterà di ricavare tessuto per una cinquantina di abiti, è il caso di dire, esclusivi. Mi sembra che la notizia possa stimolare delle riflessioni. Innanzitutto è evidente, come più volte rilevato su queste lavagne, che il mercato richiede filati sempre più fini. Ciò viene ottenuto, come sa chi è stato a Pratrivero alla Vitale Barberis Canonico, non solo con una esasperata selezione ma anche con tecniche di allevamento che consistono nel lasciare i poveri ovini a stecchetto, anche se questo può influenzare altre caratteristiche della fibra di lana. Lo scopo è di ottenere tessuti e quindi abiti che siano sempre più leggeri, ma perché? Certo la diffusione del riscaldamento e, più recentemente, il presunto mutamento del clima, possono avere una loro responsabilità, ma non sono sufficienti a spiegare la corsa esasperata a tessuti superfini. La maggior parte delle aziende, attraverso il marketing, premono molto in questa direzione, che è dunque quella del loro interesse, anche se sinceramente le motivazioni non mi sono del tutto chiare. Il tessuto leggero nella considerazione generale, Gran Maestro docet, risponde senz’altro di più a quello stile di vita “dinamico”, “disimpegnato” e “giovanile” che a molti piace pensare di avere ed è una chimera dei nostri anni, anche se dubito che indossando una saglia da 160 grammi al metro diventerò molto più giovane, scattante e –in definitiva- attraente che se questa di grammi ne pesasse 250 o 300. Può darsi che, banalmente, tessuti così leggeri durino molto poco e quindi, per un’azienda, siano assai più convenienti che corazze che scampano una generazione. O, forse, siano più facili da lavorare, immagazzinare, trasportare, tagliare, in una parola, trattare, che non tessuti più pesanti. Un altro filone di riflessione è offerto dalla effettiva convenienza per il cliente di avere abiti così leggeri. La sensazione è che nella scelta del tessuto o, per la maggior parte, dell’abito, agiscano due forze contrastanti sapientemente manovrate dalla pubblicità: da un lato il desiderio di omologazione al gruppo cui si appartiene, uno per tutti: operatore finanziario, dall’altro quello di distinguersi dalla massa con qualcosa che sia uno status symbol, sia raro e prezioso, anzi: unico! E quindi cosa di meglio di un abito fatto con il tessuto più fine del mondo? Gli imperatori romani non vestivano di porpora e bisso? Ma in tutto questo cosa resta della capacità e anche della possibilità di scelta individuale? Sarei lieto di leggere al proposito le Vostre considerazioni ed una Ve la propongo io: “I tessuti devono essere pesanti,densi, corposi e opulenti. Non segatura da gettarsi sulle spalle”. (2). Bibliografia: 1 - D. De Paz, Manuale dei Tessuti, Bologna 2003 2 - I. Comi, Conversevole Week-End sull'Eleganza Maschile, Casa Editrice Steanoni, 2000. Con i migliori saluti al Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 07-05-2005 Cod. di rif: 1966 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Rigate diritto... Commenti: Con la primavera mi viene voglia di righe. O meglio, di camicie a righe. Di pigiami a righe, di boxer a righe, insomma di biancheria a righe. Un bel giorno, mi accorgo che l’inverno è finito, la bella stagione si dispiega con tutte le sue promesse e le solite tele bianche o celesti non mi bastano più. D’altra parte il cielo di Parigi ha solo diciotto tonalità. Così vado alla ricerca di righe, o meglio di righe e bastoni, sottili, sottilissimi e larghi, blu naturalmente e poi azzurri e celesti, ma anche, perché no, vermigli o bottiglia su fondo bianco immacolato. Tempo fa lessi un bel libretto di Michel Pastoureau, “La stoffa del Diavolo”, che esaurisce ogni possibile significato della riga nei tessuti e nell’abbigliamento e spiega così questo bizzarro impulso: “Ma restiamo nel campo del tessile e constatiamo come la riga igienica, figlia della società industriale e dunque molto lontana dalla rigatura medievale su cui ci siamo a lungo soffermati, rimane ampiamente presente nel nostro universo quotidiano. Portiamo ancora oggi camicie e biancheria intima a righe; usiamo accappatoi da bagno e asciugamani a righe; dormiamo avvolti in lenzuola a righe. Anche la tela dei nostri materassi è rimasta rigata. Bisogna supporre che queste righe in colori pastello a contatto con il nostro corpo non rispondono soltanto all’esigenza di non sporcarlo, ma hanno anche il compito di proteggerlo, oltre che dal sudiciume, dalla contaminazione e dagli attacchi esterni, anche dai nostri stessi desideri, dal nostro irresistibile desiderio di impurità? Ritroveremo allora le righe-barriera, le righe-filtro precedentemente evocate a proposito degli internati e degli ergastolani. E’ chiaro comunque il modo in cui, nel corso dei decenni, la società ha costruito intorno a queste righe igieniche dei codici molto elaborati. Tipici a tale proposito i casi della camicia e dell’abito intero da uomo. Una vera semiologia socio-culturale della rigatura si è instaurata, classificando gli individui e i gruppi a seconda dei vestiti a righe che indossano: righe larghe o strette, righe che associano al bianco un colore vivo o uno pastello,righe orizzontali o verticali, continue o discontinue. Alcune vengono giudicate volgari e altre di buongusto, alcune assottigliano e altre ravvivano la figura, altre ancora ringiovaniscono o invecchiano. Ci sono righe alla moda ed altre che non lo sono affatto. E come spesso, anzi come sempre accade, queste mode si consumano, si invertono, differiscono da una classe sociale all’altra, da un paese all’altro. Sembra tuttavia che qualche costante resista all’usura del tempo, dopo l’ultima guerra, e possa riguardare un vasto campionario sociale. Per tutti gli indumenti che sono a contatto col corpo, e anche per alcuni indumenti esterni, le righe sottili e pallide sono considerate migliori delle righe larghe e a colori violentemente contrastati. Così, il banchiere e il malvivente portano entrambi un abito e una camicia a righe: strette e discrete nel primo caso, larghe e vistose nel secondo. Queste ultime vengono giudicate volgari. Ma evidentemente, ostentare con intenzione una certa volgarità può perfino, talvolta, a seconda degli ambienti e delle circostanze, risultare “la cosa più chic”. Sembra comunque sia stato stabilito progressivamente che la riga vestiaria avesse una connotazione più maschile che femminile, anche se molte donne indossano vesti rigate.”. Desiderio di trasgressione, dunque, appartenenza a una classe sociale, identificazione sessuale, che altro ancora possono dire di noi le righe? Lo stesso autore, nella nota 77: “La camicia a righe sembra essere diventata, nella società francese contemporanea, una forma superlativa della camicia bianca, almeno nel mondo aziendale. Mentre i quadri sono frequentemente qualificati come cols blancs (“colletti bianchi”, contrapposti agli operai, “cols blues”, colletti blu), i “superquadri” tendono ormai ad essere qualificati come cols rayés, “colletti rigati”. Mi sembra che anche da noi ci siano segni di tendenze analoghe, Montezemolo docet. Sempre in tema di righe e trasgressione, si discuteva l’altro giorno col drappiere, della camicia con colletto di colore diverso dal busto -una per tutte la camicia inglese azzurra con colletto bianco- e di come sia difficile da portare ed esportare dalla Gran Bretagna. L’incauto soggetto si sbilanciava infine a proporre, per ottenere un effetto trasgressivo, la confezione del colletto di una camicia a righe con le medesime in verticale anziché, come ci hanno insegnato i Padri, in orizzontale, effetto che talvolta si vede nelle camicie “di tendenza”. Ora, io credo di riuscire a sopravvivere alla attuale invasione di colletti alti una spanna, con tripli bottoni, asole a contrasto, polsini portati slacciati e quant’altro solo perché vaccinato dagli Anni Settanta, in cui le camicie avevano colletti con vele lunghe mezzo metro ed erano aderenti come le canottiere, esteticamente abominevoli . Chi le ha viste sa cosa intendo. E tuttavia debbo dire che, meditandoci, non sono riuscito a trovare ragioni inespugnabili contro un colletto a righe verticali, salvo il fatto che da sempre si fa il contrario, in verità non un granché come obiezione. Magari a qualche dottissimo Cavaliere verranno invece in mente granitici motivi per cui le righe dei colletti debbano correre verso il mento anziché verso la cervice e potrà così salvare un pover’uomo, che sta cadendo in tentazione, almeno da questo peccato. I migliori saluti al Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 31-05-2005 Cod. di rif: 1992 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Plagio dal sito dell'Ordine Commenti: Egr. Cavalieri, Simpatizzanti, Frequentatori, Ho ritenuto di dover inviare al Direttore di Panorama la seguente missiva. Egr. Direttore, Non sono Cavaliere, né per nascita né per investitura, pure presso la Dimora dei Cavalieri delle Nove Porte sono sempre stato accolto non come un viandante qualsiasi, sistemato nelle scuderie per la notte, ma piuttosto con la signorile cortesia riservata ad un ospite. Ora che il Castello viene attaccato, sento come preciso dovere mio e di quanti abbiano trovato conforto nei suoi locali, l’impugnare penna e foglio, metafore attuali della spada e dello scudo e dar man forte nella sua difesa. Il giornalista della testata on line che lei dirige si è comportato nei confronti dell’Ordine in modo scorretto, sottraendo con l’imbroglio ciò che gli sarebbe stato donato con generosità. Protetto dall’invisibilità offerta dalla rete, ha carpito dalle Lavagne della Porta dell’Abbigliamento i frutti unici dell’esperienza del Vicerettore, l’ingegner Forni e li rivenduti come prodotti delle vigne di altri, verosimilmente più noti ai vostri lettori e (presumibilmente) all’oscuro di tutta la manovra. Il fatto è ancora più vile perché egli certo non ignorava che, ove avesse chiesto dieci, il Forni e gli altri gli avrebbero dato cento. Non voglio ora sottolineare la violazione di ogni norma etica che un simile comportamento configura. Non mi dilungherò nemmeno su quanti codici, deontologici e non, questa azione infranga, già lei lo sa. Mi preme semplicemente rilevare come -per chi scriva di costume- è forse ancora più grave la profonda ignoranza dimostrata del significato che ha l’esperienza personale nella formazione di un uomo di gusto. Nessun decalogo, di quelli che riviste come quella da lei diretta amano tanto, nessun manuale, dirò di più: nessun esempio concreto potrà mai surrogare quella che è l’esperienza personale nella costruzione di sé stessi e del proprio guardaroba in quanto metafora del proprio essere. Estrapolando quelle citazioni dal contesto umano, culturale e cronologico che le ha prodotte e infilandole nelle bocche di altri (ignari) soggetti, le si privano del loro significato sostanziale, se ne snatura la percezione che il lettore ne ricava e, in definitiva, si opera una mistificazione. Dall’astratto al concreto è come se alla Fiat decidessero di produrre delle Bentley: può darsi che vedendole passare in strada il passante le confonda con l’originale ma come sperare di ingannare chi le Bentley le conosce davvero? Come sperava il suo redattore di farla franca? “Il bene non ha che un modo, il male ne ha mille” scrisse Balzac, che per noi che ci interessiamo al gusto è un Padre della Patria, nel “Trattato della vita elegante”: solo e soltanto uno è il modo giusto di riparare a questo vulnus: scuse franche, sincere e tempestive. Non, si badi bene, l’addossare la responsabilità al solito refuso di compilazione, le frasi attribuite a Tizio sono in realtà di Caio, ce ne scusiamo, sapete quanta fretta in redazione. Non il solito offensivo pistolotto sul fatto che i suddetti signori avevano espresso delle opinioni in fondo molto simili al Forni e quindi, tutto sommato, quest’ultimo dovrebbe sentirsi lusingato che le sue parole di uomo comune vengano attribuite a dei VIPs (sic!). Non l’esaltazione della “contaminatio” tanto cara agli antichi, condita con l’ammiccamento tipo noi che abbiamo studiato queste cose le sappiamo. Scuse franche, sincere e tempestive! Infine, dei tanti modi del male, mi permetto di ricordarle il peggiore che il Direttore di una rivista (pardon, un magazine), seppure on line, come Panorama potrebbe aver la tentazione di adottare nei confronti di una istituzione come l’Ordine: non rispondere. Nascondere dietro il dito del non possiamo occuparci di queste minuzie l’elefante del furto di idee perpetrato. Scuse franche e sincere, dunque, Signor Direttore, del suo giornalista e sue. E tempestive. Con i migliori saluti, Alberto Longo Simpatizzante dell’O. dei Cavalieri delle Nove Porte ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 16-09-2005 Cod. di rif: 2131 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Il capo misterioso Commenti: Egr. Gran Maestro, La sua appassionata arringa in difesa del gilet mi trova in consonanza col suo pensiero non meno della rivendicazione della natura intrinsecamente umanistica della trasmissione della cultura dell’abbigliamento che la precedeva. Ma se in questa parlava il Magister, nella prima ho avvertito il suo ruolo quale quello del critico d’arte esperto, capace di dar voce -pardon– pixel alle nostre sensazioni spesso indefinite di fronte ad un abito o ad un capo, un percorso al termine del quale ci ritroviamo a pensare: “Ma è proprio così, com’è che prima non me n'accorgevo?”. Qualche panciotto capita ancora di vederlo, qua e là fugacemente, ma la sua rarità compete ormai con quella dell’orso bruno sulle alpi e i pochi esemplari in cui ci si imbatte sopravvivono nelle stesse condizioni di ostilità ambientale. Verrebbe voglia, a costo d’esser noiosi, di insistere nell’apologia di questo capo, troppo spesso liquidato o nemmeno preso in considerazione perché, così superficialmente, tiene caldo o è troppo formale o fa sembrare vecchi. Sic! Sarà senz’altro come dice, Gran Maestro, che l’agonia del panciotto l’ha decretata l’incomunicabilità fra committente e sarto, sarà vero soprattutto per l’elitaria clientela del “su misura” ma per gli altri, per la maggioranza, io ci aggiungerei anche una buona dose di quella forma mentis così spesso stigmatizzata su queste lastre che ci vorrebbe tutti giovani (peggio: giovanili), informali, sempre comodi e a nostro agio, naturalmente per la via più breve, quella che consiste nel disfarsi in fretta e furia di tutto ciò che abbiamo ereditato dai padri, gettando assieme all’acqua anche il bambino. E’ acuta la sua osservazione che un tre pezzi non è un due pezzi col gilet! Il gilet di tessuto di un completo non ha evidentemente lo stesso ruolo di quelli di maglia, che si portano sotto le giacche sportive ma è appunto un qualcosa in più attorno a cui viene addirittura impostato l’abito. I canoni che lei ha enunciato sono l’università di questo capo ma anche prescindendone il suo potere di conferire allure resta altissimo e immediatamente percepibile ad ogni livello. Propongo un esperimento: si vada in un qualunque negozio di confezione o grande magazzino, anche abominevole e si provi un abito tre pezzi qualsiasi (se lo si trova…, indossandone però solo la giacca e i pantaloni. Ci si rimiri allo specchio. Poi si indossi il gilet. Di fronte a voi ecco un’altra persona, che non sarà più elegante (come vi dirà la commessa) ma certo vestita con più compostezza e distinzione, che trasmetterà una maggiore affidabilità. In una parola sarà percepibile una maggior “compiutezza” dell’insieme. Il merito? Dite voi. A cosa sia dovuto questo “effetto gilet” ha già dato ampiamente risposta lei ma mi piacerebbe avere un suo parere anche sull’idea che vado ad esporle: indossando un corpetto nascondiamo una delle zone più critiche del completo giacca-pantaloni, quella della vita, dove si incrociano il bustino dei pantaloni coi passanti, la cinta con la fibbia o i chifferi delle bretelle coi tiranti, gambe e gambette della cravatta, la camicia più o meno sbuffante sul bustino e spiegazzata intorno alla vita, un po’ di pancetta… ce n’è abbastanza perché, a mio parere, coprendo il tutto con lo stesso tessuto dell’abito se ne guadagni e non poco: occhio non vede, dice l’adagio, con quel che segue e in più la figura, nel suo insieme, non risulta spezzata a livello dei pantaloni ma allungata in un tutto unico dalle spalle alle scarpe. Insomma ne guadagna. E’ plausibile? Mi piacerebbe ancora sottoporre al vaglio delle sue conoscenze magistrali una curiosità diciamo così storica -sempre di gilet parliamo- in cui mi sono imbattuto tempo fa su “Il Petronio” di Lucio Ridenti. Questi nel capitolo “Una Via di Mezzo La Campagna” riferisce che: “Ci si reca in campagna con…(omissis) dei panciotti con maniche e senza, delle camicie colorate e di fantasia, delle quali la più pratica è quella tagliata a forma di panciotto, che con grande strepito di “novità” il famoso attore Fernand Gravey indossa, fiero della sua invenzione. Si tratta, invece, di un panciotto-camicia che fu caro a Luigi Pirandello, che almeno negli ultimi dieci anni della sua vita lo usò quotidianamente, poiché noi ricordiamo di averglielo sempre visto addosso. La camicia-panciotto di Pirandello era di flanella grigia, con cinque bottoni, il colletto rovesciato per la cravatta a farfalla. Esattamente come quella attuale. Il grande commediografo non portò mai altro tipo di camicia, di panciotto e di cravatta. Sono passati molti anni (Pirandello è morto nel 1936) ed ecco quel “panciotto” perfettamente uguale nel taglio e nella funzione, ritornare “di moda”. La camicia panciotto non ha tasche e deve essere tagliata con tale perfezione da aderire alle spalle senza far pieghe, da segnare i fianchi senza far grinze, da permettere le punte slanciate davanti, come i panciotti di seta, ricamati o arabescati del Settecento. Fatto bene e portato meglio, è davvero un indumento confortevole ed elegante. A differenza del panciotto di Pirandello che ricordiamo soltanto grigio, l’attuale può essere, soprattutto per i più giovani, anche di colore, oppure scozzese.”. Non le nascondo che la descrizione di un simile capo mi ha incuriosito, anche perché non ricordo di averne mai visti: se non ho capito male è una specie di camicia senza maniche ma con colletto per poter portare la cravatta ma a questo punto ci si chiede se Pirandello indossasse la giacca senza che ne spuntassero le maniche della camicia. Negli Anni Cinquanta (“Il Petronio” è del ’59) si portavano indumenti simil? Ho fatto qualche altra ricerca col risultato di complicare le cose. Luigi Settembrini in “La Regola Estrosa” riferisce che:”Le cronache eleganti si sono occupate poco di lui (Pirandello, n.d.r.), praticamente solo per notare che faceva spesso a meno della cravatta anche alle manifestazioni ufficiali, e per questo aveva inventato un panciotto-camicia che lo distingueva anche nell’abbigliamento dai “centomila”.”. Secondo Settembrini sembrerebbe dunque che si indossasse senza la cravatta, anzi che fosse stato ideato apposta. Corrado Alvaro in “Album Pirandello” cita:”Pirandello portava i suoi gilet abbottonati fino al mento che finiscono con il colletto e la cravatta di colore grigio.”. Qui ricompaiono il grigio e la cravatta. L’iconografia, pur abbondante, non aiuta. Ho inserito nel Taccuino alcune immagini che raffigurano il Nostro sia in completo tre pezzi con un gilet che mi sembra d’ordinanza e una cravatta lunga, sia in altre in cui porta la cravatta a farfalla su quella che sembrerebbe essere una camicia (forse grigia) ma potrebbe essere il capo misterioso, sia in una rappresentazione meno consueta in cui non si capisce bene ma parrebbe indossare un indumento intimo, tipo quelle maglie di lana con maniche lunghe che in altri tempi si abbinavano a mutandoni parimenti lunghi e di lana. Occorre la sua esperienza magistrale per dipanare questa matassa e soprattutto per un parere sul panciotto-camicia o come lo si voglia chiamare ed un suo eventuale ruolo attuale. Ringraziandola per la pazienza di avermi letto fin qui giungano a Lei e a tutto il Castello i miei migliori saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 27-11-2005 Cod. di rif: 2230 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: In risposta al Sig. Moscatelli Commenti: Egr. Sig. Moscatelli, Le segnalo, in risposta al suo appello, un testo che forse potrà in qualche misura rispondere alle sue esigenze di documentazione iconografica sul mondo della camicia. Nessuna pretesa di esaustività, naturalmente, sia perchè non è studiando i vari colletti su di una pagina che si può verosimilmente trovare il "proprio" colletto, sia perchè le camicie parlano solo indossate e dunque si può apprendere assai di più esaminando qualche buona fotografia di personaggi che si ritengono interessanti che un inerte elenco di dettagli. Consideri inoltre che la differenza che intercorre fra molti scritti delle penne che qui ritrova e i testi che potrà leggere correntemente sull'argomento è la stessa che separa un viaggio negli abissi col Capitano Nemo e una minicrociera alle Baleari, per cui il rischio è quello di trovare qualche difficoltà a fare riferimenti e a trarre conclusioni: ma anche questo è il bello. Un ultima cosa: come quasi tutti i libri sull'argomento o sono esauriti o sono comunque difficili da trovare, ma l'uomo va a caccia da milioni di anni e non ne ha ancora perso il gusto, per cui non disperi. Il titolo è: E. Angiuli, R. Villarosa "La Camicia - Storia Mito Moda", IdeaLibri, Milano 1999. In bocca al lupo e venatori saluti a lei e al Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 21-01-2006 Cod. di rif: 2317 E-mail: a.longo@tiscali.it Oggetto: Elegante o ben vestito? Commenti: Stimatissimo Gran Maestro, Arditi Cavalieri ed Ospiti, Vorrei proporvi alcune semplici riflessioni sulla domanda del Sig. Starace che, nella sua apparente semplicità, ripropone un tema che già ha intrigato Cavalieri, Ospiti e anche diversi autori senza che, a mio avviso, sia stata ancora trovata una risposta conclusiva. Perché è una domanda difficile? No, perché una risposta univoca presupporrebbe che si fosse riusciti a definire cosa rende un uomo elegante, il che non è. Non è perché non solo non abbiamo un concetto di Eleganza condiviso ma non sappiamo nemmeno definire in modo esaustivo cosa intendiamo per Eleganza. Non è evidentemente qualcosa di materiale, di esattamente quantificabile, di riproducibile e dunque è qualcosa di a-scientifico. Siamo nel campo della metafisica, di qualcosa che possiamo sì percepire e con qualche approssimazione descrivere ma non potremmo mai obiettivamente racchiudere in un grafico; è un’entità ancora più sfuggente di un sentimento o di un’emozione. E questo solo per fermarci al concetto dei due che appare con evidenza il più evanescente, perché, a volerlo, anche sulla più prosaica e limitata definizione di “ben vestito” si potrebbe a lungo disquisire (e infatti si disquisisce). Nelle precedenti risposte si è colto tuttavia un punto essenziale della differenza fra un uomo “solo” ben vestito ed uno elegante e cioè che l’effetto “ben vestito” può essere riprodotto perché, per l’appunto, è legato al vestito: sia che ci si arrivi perché crescono conoscenze e mezzi sotto la guida di sapienti maestri sia che, in una più sbrigativa metafora, ci si facciano prestare tout court gli abiti di un individuo ben vestito, è possibile aspirare a raggiungere questo stato anche non essendo –o non sentendosi- eleganti. Non è invece praticamente possibile riprodurre l’Eleganza, quali che siano i mezzi e i percorsi adottati, perché non dipende (solo) dal vestito. Per assurdo potremmo affermare che un uomo nudo può ancora essere elegante mentre con lapalissiana e un po’ ridicola evidenza non è più “ben vestito”. Per converso, anche l’uomo meglio vestito del mondo potrebbe non essere veramente elegante, sebbene sia esperienza comune che gli eleganti si trovino per lo più fra coloro che vestono meglio: siamo ai due insiemi che si intersecano, secondo la definizione del Cavalier Villa. Dunque l’eleganza è qualcosa di intrinseco all’individuo, agente sull’ambiente circostante e pertanto anche -ma non solo- sul vestito. Contrariamente però alla galassia di Andromeda, che esiste anche se io ne ignoro l’esistenza, l’Eleganza dipende da chi, vedendola, la sa riconoscere. Potremmo dire, parafrasando Margareth Hungerford, che l’Eleganza e' nell'occhio di chi guarda. Senza che qualcuno la riconosca, in primis il suo stesso artefice, di per se stessa essa non esiste: da ciò discende l’inquietante conseguenza che esistono tante diverse Eleganze quanti sono quelli che le guardano, perché ognuno vede e giudica in base agli elementi che ha per farlo. Essi sono, come è facile immaginare, i più diversi, spaziando dalla cultura, agli interessi, alla sensibilità, all’ambiente che frequenta, per finire al suo patrimonio genetico. Addirittura il patrimonio genetico? Pensate, per esempio, che un daltonico possa provare le stesse sensazioni di un pittore di fronte ai colori (che non percepisce) di un tweed? Chi segue da tempo queste Lavagne non potrà negare che, col crescere delle sue conoscenze sull’abbigliamento maschile, avrà cominciato a non trovare più eleganti individui che in precedenza considerava un riferimento nel genere e a cogliere, invece, autentica eleganza dove prima coglieva solo un buon vestito; anzi probabilmente si accorgerà di non riuscire ancora a capire come mai persone più esperte considerino elegante qualcuno che gli appare vestito più o meno come gli altri. Allora? Erano corrette le sue prime impressioni, le attuali o lo saranno le future? “…la massa addita il ben vestito come un elegantone” dice giustamente il Sig. Tarulli, ma siamo sicuri che anche noi non ci comportiamo in definitiva come la massa, giudicando in base agli elementi che abbiamo, sebbene più sofisticati di quelli della massa? Per concludere a me non sembra che la risposta alla domanda del Sig. Starace si trovi tutta nei territori del razionale, nel senso che si possa fornire una semplice chiave per distinguere l’uomo elegante dal ben vestito: se è così e così è ben vestito, se invece è cosà è elegante. No. Nel giudizio sull’eleganza di un individuo ci sono, oltre alle conoscenze e ai riscontri oggettivi, una forte componente personale e una, non meno importante, emozionale, come dimostrano i termini che vengono utilizzati per descriverla. Il soggetto ben vestito possiamo fotografarlo in termini più obiettivi, portava un morning coat grigio ferro, aveva una cravatta con disegno pied de poule etc. Una persona elegante ci abbaglia, racconta la Tolstoi, come i fuochi d’artificio al crepuscolo di una festa o le risate dietro una siepe di biancospino. Ma non tutti siamo abbagliati dalle stesse luci. I migliori saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 13-04-2006 Cod. di rif: 2408 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Covercoat Commenti: Egr. Rettore, Ancora perplessa, la primavera, qui nella metropoli settentrionale dove vivo. Una vera Mezza Stagione, di quelle che non ci sarebbero più secondo l'usitatissimo luogo comune. Siccome stavolta c'è, allora "non si sa mai cosa mettersi", tanto per non rinunciare mai alla banalità. In questa grande città con troppa moda e troppo poca fantasia i signori hanno appena riposto i loro Loden (neanche tutti) e riesumato il Burberry, antonomasia, da queste parti, per l'impermeabile di gabardine color kaki. Il loro tributo al British style è stato versato e si sentono a posto sotto tutti i cieli. Fossero poi quelli del Regno Unito, avrebbero forse ragione, le primavere d'Oltremanica sgocciolano più delle nostre; ma qui, dove spesso il cielo sorride, il raincoat sempre e comunque mi sembra una limitazione dello spartito che si macchi della colpa più grave che si possa addossare ad una scelta d'abbigliamento: l'essere prevedibile. Scontata. Omologata. In una parola: triste. Pensando ad un'alternativa possibile mi è sembrato plausibile il Covercoat. E' un capo che alle nostre latitudini, stranamente, è poco visto ma avrebbe tutto per essere una scelta valida, che dico? Quasi necessaria rispetto al Burberry, nelle giornate di bel tempo della lunghissima stagione che copre la fine dell'inverno fino alla tarda primavera e poi di nuovo da settembre fino ai primi freddi. Il giudizio definitivo, naturalmente, spetterà a lei ma credo ci siano pochi dubbi sul fatto che vada ascritto al Classico Internazionale (ma forse ha già sentenziato). E' un soprabito che abbina, per l'origine sportiva dal mondo dell'equitazione, una certa disinvoltura ad una compostezza formale che lo rende adatto ad un ampio ventaglio di situazioni urbane, da quelle disimpegnate agli appuntamenti di lavoro non troppo formali, tipicamente è di covert, tessuto quant'altri mai resistente all'uso e protettivo senza essere troppo caldo, di spiccata e riconoscibile personalità. Insomma, le qualità non gli mancherebbero eppure, stranamente, qui lo si incontra di rado al punto che, meditando di progettarne uno, mi trovo a non sapere bene come sia fatto in dettaglio. Per quel poco che ho visto in giro e debitamente scandagliate Lavagne, Taccuini e Scrivanie mi sono fatto un'idea dell'aspetto generale ma non so ancora di preciso come appaia posteriormente (spacchi, bottoni, martingale...) e sia foderato all’interno. Mi appello dunque alle sue vaste conoscenze per apprendere ulteriori elementi, sperando che le sia possibile tracciare un profilo dettagliato di questo soprabito come già fece con quell'altro caposaldo che è l'Ulster, con schizzi e approfondimenti. Chissà che a qualcun altro non venga il desiderio di lasciare appeso l'impermeabile, almeno quando si sentirà, come me, permeabile agli umori di questa subdola primavera. Le anticipo i miei ringraziamenti, certo di poter contare sul suo sostegno nell'impresa. Cordiali saluti a lei e a tutto il Castello sotto questo cielo, che oggi sembra un principe di Galles con la righina celeste, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-04-2006 Cod. di rif: 2410 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Ringraziamenti al Rettore Commenti: Egr. Rettore, Un ringraziamento vivo per la tempestiva risposta al mio appello. Farò tesoro delle sue esperte annotazioni, fra le quali mi pare di particolare pregio il richiamo alle esatte proporzioni. Ha ragione, il segreto e il fascino del Covercoat è proprio lì, nella difficile armonia fra le tre dimensioni spaziali. In fondo, proprio come la mezza stagione che interpreta, questo capo sembra costantemente riassumere un equilibrio tra opposte tendenze, sia nella tensione fra il registro sportivo e quello formale sia nella tipologia dei colori e dei tessuti. Mi rendo conto dal suo scritto di come sia meno scontato del previsto realizzarlo a regola d’arte e a tal proposito, qualunque ulteriore suggerimento vorrà aggiungere, sarà apprezzatissimo. Oggi il sole brilla sui nostri desideri: speriamo di vedere in giro qualche Covercoat in più e qualche Burberry in meno. I saluti migliori, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-04-2006 Cod. di rif: 2411 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: In cauda venenum Commenti: Egr. Gran Maestro, Ho sempre apprezzato la sua conoscenza della semiologia dell’abbigliamento, capace di leggere il significato profondo di un particolare, di un dettaglio là dove altri vedevano solo un artifizio tecnico o neanche quello. E’ a questa sua prerogativa che mi appello per decifrare la sensazione di insoddisfazione che provo guardando l’ultima camicia che ho ritirato. In breve, lasciandomi tentare dalla persuasiva artigiana ho fatto confezionare una camicia… con la coda. L’appendice di stoffa, cucita al bordo inferiore del dorso della camicia nel punto mediano e dotata di un’asola alla sua estremità distale, viene fatta passare sotto il cavallo e allacciata sul davanti ad un bottone più basso del solito, quasi sul bordo. Apparentemente sembrerebbe l’uovo di Colombo: la camicia così fissata non solo non esce dai pantaloni e non si rimborsa, ma mantiene un impeccabile aplomb in qualunque situazione ci si venga a trovare, fosse anche a testa in giù. Temevo che, data la modalità dell’allacciatura della coda, soprattutto portando i boxer, la camicia potesse risultare scomoda e invece neanche quello, non ci si accorge quasi della differenza. Tutto perfetto? Non so perché ma la camicia così non mi piace un granché. Le altre mie, che ho fatto confezionare molto più lunghe del solito, offrono tutta un’altra sensazione di essere coperti e vestiti e restano comunque (abbastanza) nei pantaloni anche perché, così lunghe, fanno molto attrito coi calzoni stessi; inoltre il Maestro aiuta il processo con una fodera del bustino che presenta una striscia gommata e goffrata che aderisce ulteriormente al cotone. Ma non è solo questo: è vedere una camicia più corta, tutta bottoni, con quella primordiale appendice che la fa sembrare un cappottino per cani, il doverla allacciare contorcendosi che mi sembra svilire il nobile capo di biancheria è che… insomma è meno bella. Mi potrebbe aiutare a far ordine fra queste sensazioni, magari aggiungendoci una suo personale parere sul capo in questione (di cui allego per chiarezza una foto al Taccuino 2408)? Ringraziandola da adesso porgo a lei e al Castello, con i miei migliori saluti anche gli auguri per una Pasqua felice, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 11-05-2006 Cod. di rif: 2450 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Canone e galateo dell'ombrello Commenti: Egr. Gran Maestro, Sono fuori strada se penso che sin dall’inizio gli straordinari eventi del Cavalleresco furono concepiti non solo come occasioni di studio e di piacere ma anche come opportunità per i partecipanti di scoprire Botteghe e Maestri che altrimenti non avrebbero forse mai incontrato? Seguendo questo filo d’Arianna ho nel tempo radicalmente arricchito conoscenze e contatti, fino a poter dire che oggi buona parte degli artigiani cui mi rivolgo e alcuni di quelli che ho intenzione di visitare, li ho conosciuti direttamente o indirettamente attraverso l’Ordine. Ho partecipato ad eventi in diverse città e non sono mai mancati spunti per avvincenti esplorazioni. Presto sarà il turno di Napoli, per il Laboratorio sui pantaloni. Non le nascondo che ebbi la tentazione di chiederle un succinto compendio sul genere “Cose che non puoi proprio perderti” ma poi, considerando che non avrò come al solito poco tempo, ma pochissimo, ho pensato che fosse inutile disturbarla per infliggersi il supplizio di sapere di posti imperdibili dove tanto non sarei potuto andare. Però dal Maestro Talarico un salto vorrei farlo. Non solo per godere del paradosso vivente di uno degli ultimi (l’ultimo?) maestri ombrellai italiani che vive e lavora nella città del sole ma anche, più prosaicamente, per acquistare un ombrello (solo uno?). A questo punto però mi sono accorto di quanto poco sappia su questo accessorio che sta silenziosamente uscendo dal campo visivo e cognitivo: non se ne parla più e le informazioni su come debba essere fatto un signor ombrello non le ha (quasi) più nessuno. Ho visitato il sito di Talarico e letto quanto scritto nella Porta dell’Abbigliamento, che è molto, ma forse non ancora abbasta per una scelta consapevole. Cosa bisogna sapere per decidere, ammesso di sapere già cosa so voglia, come orientarsi fra le innumerevoli proposte? Qual è il canone –se c’è- dell’ombrello per l’uomo occidentale del XXI secolo? Non si può parlare dello strumento senza approfondirne l’uso. Che non lo si debba infilare negli occhi del prossimo e non lo si debba aprire in casa (dei superstiziosi…) si sa: ma qual è il codice d’uso dell’ombrello oggi, il suo significato metalinguistico: epigono moderno, pare, della canna da passeggio, a sua volta vicario della spada del gentiluomo, simbolo fallico in secoli ormai trascorsi, oggi che la virilità sembra aver quasi perso il diritto di domicilio (e figuriamoci una fallocrazia) girare in città con un parapioggia fa sentire degli stralunati Don Chisciotte che hanno parimenti sbagliato le previsioni del tempo: storico e meteorologico. Mi dica: siamo tutti personaggi di Cervantes? In attesa di un motto di conforto, le giungano i miei migliori saluti, che estendo a quanti si aggirino per il Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 16-05-2006 Cod. di rif: 2460 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: ...a volo sorpresa gentil farfalletta Commenti: Egr. Sig. Falletto, Sono certo che fra tutte le risposte che poteva aspettarsi alla sua domanda, certo non immaginava la seguente: lei già conosce alla perfezione come annodare superbamente un papillon. Come lo so? Perdonerà se la tengo ancora un attimo in sospeso. Anni fa, leggendo "L'insostenibile leggerezza dell'essere", mi colpì un'affermazione di Tomas, l'impenitente dongiovanni protagonista della vicenda, il quale sosteneva che ognuna delle sue conquiste assomigliava moltissimo all'altra, tranne che per quel 2-3% di unicità che rappresentava il suo fascino e la ricompensa del seduttore. Ora, a me capita lo stesso coi libri sull'abbigliamento: dopo un po' si assomigliano in molto, tranne che per quella piccola percentuale che rappresenta il motivo per cui vale sempre la pena di leggerli. Uno di quelli per cui è senz'altro valsa la pena di leggere "Il Petronio" di Lucio Ridenti è che mi ha di colpo aperto gli occhi sulla vera natura del nodo della cravatta a farfalla, che lei, come me fino a quel momento, ignora solo perchè un'inspiegabile blocco psicologico impedisce a tutti di riconoscerlo per quel che è veramente. E quando dico tutti, dico non solo i poveri lettori, ma anche agli autori di ponderosi testi sui nodi da collo. Dimentichi tutti quei contorcimenti da prestidigitatore davanti allo specchio, col libro col nodo davanti, cercando di decifrare le circonvoluzioni del nastro tra estremità destra e asola sinistra, che però essendo allo specchio appaiono rovesciati per cui forse era l'estremità sinistra, ma se guardo il disegno nello specchio lo vedo giusto... Ma è ora che ceda la parola al Ridenti: "Non sembri impossibile, ma a qualcuno riesce difficile e perfino d'impaccio, annodarsi la cravatta da sera. Impazienza o imperizia che sia, la piccola manovra davanti allo specchio si risolve facendo gli stessi movimenti, con i due lembi, come con i due capi ci si allaccia le scarpe: punte delle stringhe o alette il risultato non cambia." Sì, ha capito benissimo! Quello del papillon è esattamente lo stesso nodo con cui ci si allaccia le scarpe: provare per credere. Naturalmente, essendo il papillon un nastro assai più largo di una stringa, si dovrà aver cura di non torcere le estremità e di stringerlo e allentarlo quel tanto che basta ad ottenere l'effetto voluto, ma la tecnica è quella. Provare per credere. Un minimo di pratica e le riuscirà come annodare la cravatta, suscitando la sorpresa di chi le chiederà ma dove ha imparato ad annodare così bene il farfallino. Non mancano poi variazioni sul tema per ottenere effetti speciali, come le cocche asimmetriche e altri, ma all'inizio è meglio non strafare. Augurandole una felice riuscita, mi congedo con i migliori saluti al Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 10-06-2006 Cod. di rif: 2478 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Non di rito Commenti: Vorrei esprimere gratitudine per quanti hanno contribuito al recente evento napoletano dell'Ordine, vero cibo per la mente e per il cuore (e anche per la gola!!!). Molti vorrei ringraziare personalmente, con queste righe, per la generosa, cavalleresca ospitalità, per l’organizzazione impeccabile, per un consiglio prodigato con la levità di una battuta e l'autorevolezza di un comandamento, per un manicaretto da far socchiudere gli occhi, insomma per tanto Piacere e Bellezza insieme. Per tutti, ringrazio ancora il Gran Maestro, perpetuum motuum di ogni iniziativa e la città di Napoli, che sa tante cose dell’Uomo. I migliori saluti al castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 24-08-2006 Cod. di rif: 2559 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Postille sui bottoni Commenti: Appurato e rassicurato dal non essere l'unico feticista che affronta pellegrinaggi da indulgenza plenaria solo per reperire i bottoni creati apposta per il tessuto di turno, mi permetto di suggerire a chi dovesse raggiungere "Tutto per la Sarta" a Milano di sollecitare il patron Moioli (dribblare con cortese fermezza le commesse) a mostrarvi anche i bottoni in corno nero, interessanti, più che per la consueta fattura industriale, per il colore non facile da reperire. Segnalo anche per alcuni colori -sempre di corno parliamo- la disponibilità della fantomatica misura "da gilet", intermedia fra quella da manica e quella da giacca, miracolosamente sopravvissuta malgrado ormai nessuno più la chieda. Fatevi anche mostrare i campionari dell'azienda francese, chiusa da tempo, da cui si riforniva in precedenza: avrete motivo per alimentare la vostra nostalgia. Sempre a Milano può meritare una visita anche il seguente indirizzo: De Paoli Passamanerie - Milano (MI) 20123 - 51, VIA MONTI VINCENZO tel: 02 4813639, dove ho trovato bottoni in corno degni di attenzione. Buona caccia ai Pellegrini! Cavallereschi saluti, Alberto Longo P.S. nella zona dove ha sede "Tutto per la Sarta" non parcheggiano neanche i piccioni: taxi o, perfetta perchè ferma praticamente in negozio, la linea 1 della Metropolitana, fermata Lima. ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 31-08-2006 Cod. di rif: 2562 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Ottone d'Albione Commenti: Egr. Cav. Villa, Ho tardato un po’ nel risponderle per essere certo che nelle pieghe di una memoria fallace non si celasse la risposta a quanto chiedeva nel suo gesso recente. Sono mortificato nel dover ammettere di non poterle essere di alcun aiuto. La faretra è vuota. Non solo non saprei, nello specifico, dove la sua occasionale conoscenza si rifornisca dei preziosi manufatti britannici ma, più in generale, non sono nemmeno in grado di darle qualche indicazione di massima, essendo purtroppo le fibbie quel genere di articoli che si possono reperire in ugual misura dal negozio di ferramenta alla gioielleria, passando per le pelletterie e le sellerie. Mi riprometto tuttavia di rimanere in veglia diuturna nella mia garitta, orecchie tese ed occhi aperti a scorgere il più lontano bagliore ottonino. Se lo scorgerò, sarà il primo a saperlo. Numquam servavi, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 23-11-2006 Cod. di rif: 2718 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: de gustibus... de minimis Commenti: Egr. Rettori e Cavalieri, E’ un piacere assistere alle passioni che riesce ancora a smuovere su queste plumbee lastre “uno dei capisaldi del guardaroba maschile”(Villarosa e Angeli, Homo Elegans, Idealibri) come la giacca di tweed! Ma se sono feconde le disquisizioni sui rispettivi gusti lo sono ancor più gli approfondimenti sull’argomento che prescindono dai desiderata personali. I battenti che presidiano questa ala del castello già molto custodiscono sull’argomento ma l’ultima Lavagna sul tweed è ancora ben lungi dall’essere stata scritta e su tanto oggetto mi piacerebbe conoscere le vostre esperienze. E’ probabile infatti che non esista l’antonomasia della giacca in tweed, pertanto maggiori saranno le informazioni disponibili tanto più ampie saranno le possibilità di interpretazione. In un lontano gesso (Rif. 110), ad esempio, il Cav. Forni descriveva l’uso di foderare il rovescio del colletto della giacca non col solito panno ma con la stessa stoffa del capospalla, al fine di poterlo rovesciare e abbottonare a protezione contro le intemperie. Inserisco nei Taccuini (n. 2815) la fotografia di una “hicking jacket” che presenta un’asola al colletto, coll’evidente scopo di renderlo allacciabile: era questa la soluzione cui accennava? E’ da riservarsi a capi diciamo “molto caratterizzati” in senso sportivo o è sdoganabile nell’informale cittadino? Un’altra questione è rappresentata dai bottoni: penso che ci sia unanimità nel considerare adatti quelli di corno (taccuino n. 2817), mentre mi piacerebbe conoscere il vostro parere sui materiali vegetali come il corozo e certi legni. I bottoni in pelle (taccuino n. 2816), con lo stelo rivestito (sempre Forni, gesso 2538), sono nell’uso originario britannico o sono un’incrostazione culturale successiva, stile neotirolese-meneghino? Sempre per quanto attiene agli albionici costumi, dai quali difficilmente si può completamente prescindere essendo nati i tessuti in questione proprio in quelle lande, qual è l’uso (o l’abuso) che si fa oggi a Londra del tweed: è riservato agli sport all’aria aperta come caccia (taccuino n. 2818), equitazione e pesca innanzitutto, a nicchie socio-culturali come i professori universitari o è utilizzato come da noi anche in ambito lavorativo e se sì, con che limiti? Ancora: quali fodere è meglio usare per non alterare le straordinarie doti di comfort di queste lane, il Bemberg o la seta? Altri interrogativi mi pungolano sulla specifiche dei gilet da abbinare a queste giacche stra-ordinarie, ma forse sto mettendo troppa carne al fuoco, riparliamone in un prossimo gesso. Mi piace congedarmi proponendovi un’emozionante boutonniere su di un bavero di tweed (taccuino n. 2819). Cavallereschi saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 25-11-2006 Cod. di rif: 2729 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Il male oscuro Commenti: Rientro da una malinconica escursione nel centro di Milano. La tetra pioviggine autunnale è la giusta cornice per come mi sento dopo aver sussultato davanti ai cartelli della vetrina: dopo 136 anni di attività Pedraglio chiude. Liquida tutto e chiude. Chiude Pedraglio! Cosa significhi lo possono capire i miei concittadini, siamo tutti venuti al mondo che Pedraglio era già lì, rassicurante come la tradizione e ora non c'è più: d'ora in poi si farà a meno anche del bel negozio di Piazza Cordusio, uno dei tanti già scomparsi dal centro. Un autentico tempio dell'abbigliamento classico serra i battenti per sempre, per le irricevibili richieste della proprietà dell'immobile ma soprattutto per la mancanza di ricambio generazionale, non essendo i discendenti degli anziani proprietari interessati a proseguirne l'attività. Così, almeno, mi ha raccontato uno sconsolato commesso. Ma qual'è questo male oscuro che fa sì che gli artigiani non trovino chi ne prosegua l'opera, i negozi storici chiudano, gli eredi non ritengano più degne nemmeno gloriose e floride attività commerciali come quella in questione e le nostre piazze e vie si riempiano di fast-food e stock-house? Cosa ci sta succedendo? Sono tornato a casa e ho scartato dalla velina la camicia di batista con cui mi sono sposato: era di Pedraglio, mi ha portato fortuna. L'ho messa via per sempre, come si fa coi ricordi. Post scriptum una segnalazione sul dibattito del momento. E' stato ristampato ed è disponibile in numerose copie da Hoepli un classico della scarna bibliografia in italiano sulle calzature: Jean-Marc Thévenet, Passo dopo Passo, Lupetti. Testo non senza pecche ma che non può mancare nella biblioteca di chi s'interessi dell'argomento e che mancava dagli scaffali da decenni. Approfittatene ora, se dovesse esaurirsi temo non ci saranno altre occasioni. Cavallereschi, malinconici saluti, ALberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 18-01-2007 Cod. di rif: 2837 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Lanolina et similia Commenti: Egr. Cavalier Villa, Le sue parole lasciano chiaramente trasparire l’amore per il mondo della maglieria maschile, che si materializza anche attraverso le assidue cure che tali capi, così resistenti da affrontare qualunque intemperie e cosi fragili da perire per sempre in un lavaggio malaccorto, necessitano costantemente. Il lavaggio infatti è sempre il momento più critico per la lana, che si depaupera lentamente ma inesorabilmente della preziosa lanolina e con ciò della sua più intima natura. A tal proposito si legge su siti anglosassoni –in particolare trovai questo suggerimento per i suggestivi maglioni originari di Guernsey- di aggiungere mezzo cucchiaino da tè di olio di mandorle o analoghi (quali siano questi analoghi non è dato sapere, forse anche l’olio d’oliva?) all’ultimo risciacquo o di spruzzare la lanolina (ma dove la si troverà, la lanolina?) emulsionata con acqua sul capo posto ad asciugare. Le confesso di non ricordare analoghi consigli e pratiche nelle italiche sponde e pertanto mi è rimasto il dubbio che fosse una procedura riservata ai rustici capi destinati ai marinai britannici o, meno probabilmente, da noi ignorata o sconosciuta. Ha qualche esperienza in proposito, diretta o riferita? Qualche consiglio specifico per arginare l’emorragia della nobile proteina? Ringraziandola per aver condiviso le sue conoscenze sulla materia e per quanto vorrà ancora dirci, saluto cavallerescamente lei e tutto il Castello, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 19-01-2007 Cod. di rif: 2839 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Una freccia in più Commenti: Egr. Cav. Villa, La ringrazio per l'esaustiva risposta e tempestiva . Ogni informazione che possiamo aggiungere al nostro bagaglio di conoscenze non solo non l'appesantisce ma contribuisce ad armare maggiormente le nostre faretre. Ritengo la più accorta delle manutenzioni un dovere per chi aspira al massimo della qualità: è inammissibile cercare i migliori materiali e pretendere i più abili artigiani per dissipare poi stoltamente tale patrimonio in una manutenzione distratta o carente. Cercherò la lanolina (gli Italiani, naturalmente, la usano solo per la cosmetica...), non fosse che per quel caldissimo maglione scozzese che da tempo si lamenta sullo scaffale del mio guardaroba. Adesso capisco che cosa vuole. I migliori saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 21-01-2007 Cod. di rif: 2841 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Necessario necessaire Commenti: Egr. Gran Maestro, Non credo ci siano dubbi sul fatto che la facilità di spostarsi sia una delle caratteristiche che maggiormente caratterizzano la nostra epoca. L’esigenza di raggiungere un altro dove ha da sempre segnato i destini dell’essere umano, per fermarsi ad esso e non risalire di piteco in piteco a chissà dove o, meglio, a chissà quando. Il trasferirsi comporta, e ha comportato in ogni tempo, la necessità di portarsi appresso un bagaglio fatto di conoscenze, esperienze ed emozioni che non occupano spazi se non virtuali; e un molto più concreto mondo di oggetti, i più diversi, che si debbono in qualche modo stivare in un adatto contenitore, sia esso un taschino o un container. Ma mai, prima di questi nostri giorni, così tante persone si sono mosse contemporaneamente e verso così disparate mete. Certo continua ad esserci una sostanziale differenza tra viaggiare e spostarsi, tra essere “un viaggiatore” ed essere un turista o un commesso o qualsiasi altro ruolo si interpreti in quel momento. Credo che essa risieda sia nel rapporto che instauriamo con le nuove realtà con cui ci confrontiamo sia in quello che conserviamo col quotidiano da cui proveniamo, ovvero nella capacità di mantenere solidamente un contatto riconoscibile con la nostra storia, con quello che continuiamo ad essere pur lontani da casa. Provo lo stesso senso di smarrimento di fronte ad Occidentali che ballano con gonnellini di palma e connazionali in Estremo Oriente alla ricerca di spaghetti (che però non trovano all’altezza dei nostrani!). La conosco non solo per un instancabile viaggiatore ma anche per non rinunciare mai alla propria identità, sebbene questo significhi anche circondarsi di una costellazione di oggetti e delle relative procedure (ed espedienti) di stivaggio. Apprezzo tuttavia la sua capacità di distillare da tanta esperienza le soluzioni che consentono di non rinunciare né allo stile né a quell’indispensabile essenzialità che consente di dedicarsi al viaggio e non a cercare le chiavi dell’auto. Temo di essermi fatto un po’ prendere la mano ma tutto questo era per dirle che il mio attuale necessaire da toeletta è giunto al naturale epilogo dei suoi giorni e reclama urgentemente un degno sostituto. Nella pletora di modelli, materiali, dimensioni e prezzi mi abbisogna una guida che mi aiuti a districarmi, a discernere fra il bene e il male e chi meglio di lei può illuminarmi su questo intimo accessorio, tanto negletto quanto onnipresente nel bagaglio del gentiluomo? Ho smisuratamente ammirato quello rappresentato nella quarta puntata di Vestirsi Uomo ma sono sicuro che non faccia al caso mio: al momento sono poco incline a rappresentarmi su di una banchina ferroviaria a cercare i facchini circondato da decine di lussuosissimi bauli, pertanto mi orienterei su qualcosa di molto più ridotto e resistente agli insulti dell’acqua e del tempo. Posso ardire di chiederle qual’è la sua esperienza su questo silenzioso complice del nostro relax e della nostra intimità? Si potranno, in questo caso, conciliare praticità e stile? Ringraziandola più di sempre per quanto e quando vorrà rispondermi, cavallerescamente la saluto, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 22-01-2007 Cod. di rif: 2843 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Ringraziamenti... necessaire Commenti: Egr. Gran Maestro, Preziosa risposta, la sua e come sempre non per i soli dettagli pratici ma anche per il savoir-vivre che trasmette. In particolare mi sento di pienamente condividere la sua avversione per tutta quella riduttiva categoria di ammennicoli, la cui praticità è inversamente proporzionale alle dimensioni, degli articoli per viaggiatori. Farò tesoro delle indicazioni di materiali e costruzione dell'accessorio: le dirò che nutro i suoi stessi dubbi sulla pelle, il cui fascino non fa dimenticare al concreto gentiluomo che il necessaire nasce sotto un segno d'acqua. Chissà che qualche extravagante maestro non escogiti articoli in pelle -che so- di razza o di ippogrifo resistenti all'ossido d'idrogeno. Per intanto non mi resta che ringraziarla di nuovo e salutarla cavallerescamente: troppo interessante il discorso su Viaggiatori & Turisti, ma mi sa che son cose dell'Ultima Porta. Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 26-01-2007 Cod. di rif: 2848 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Necessaire: un dubbio Commenti: Egr. Sig. Boggio, La ringrazio per l'utile segnalazione: non c'erano dubbi che un tempio come Lorenzi offrisse una risposta consona all'uomo. Mi permetta, tuttavia, di esternarle una perplessità -del tutto teorica in realtà, non avendone esperienza diretta- che potrà fugare utilizzando ormai lei da tempo l'accessorio. La nappa, una pelle delicata magari anche scamosciata, se intendo bene, non tende ad assorbire l'acqua ed altro con la quale inevitabilmente la busta verrebbe a contatto, segnandosi indelebilmente di macchie a coccarda e antiestetici aloni? Le confesso che tali segni del tempo che apprezzo, che so, su di una cartella in cuoio o sulle scarpe, li trovo sgradevoli e irritanti sulla trousse. Misteri dell'animo maschile, per cui la cravatta dev'essere irreprensibile e la pochette fané. I migliori saluti da questa Milano malmostosa, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 27-01-2007 Cod. di rif: 2852 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Una questione di polso Commenti: Egr. Sig. Ghislanzoni, In attesa della magistrale risposta al suo gesso, le propongo qualche considerazione sull’argomento di cui chiedeva, senza naturalmente alcuna pretesa di esaustività: le consideri alla stregua delle quattro chiacchiere che si fanno in sala d’aspetto, in attesa d’essere ricevuti dal grande luminare. Partirò da un frammento che traggo dal brillante “Vestiti, usciamo” di Luigi Settembrini, in cui il Nostro afferma:” I polsini, che devono chiudere il polso perfettamente, senza aria intorno, devono uscire dalla giacca, farsi vedere. (I soliti esperti sostengono che i polsini devono uscire dalle maniche per mm 18 (2/3 di pollice, sic! n.d.r.): io dico che queste sono sciocchezze e che nessuno va in giro col centimetro a misurare i vostri polsini. Quando siamo d’accordo che “devono farsi vedere” è detto tutto e andate pure tranquilli.). Insieme al colletto sono i luoghi deputati a definire la qualità della camicia.”. Difficile non essere d’accordo con l’omonimo pronipote del grande patriota napoletano; e tuttavia, su queste Lavagne possiamo non accontentarci e aggiungere qualche riflessione. La prima, a mio avviso, insieme alla risposta del GM che lei cita nel suo gesso 2818, risponde indirettamente al suo interrogativo: una sporgenza di lunghezza così breve –perdoni il brutto l’ossimoro- compreso l’idiotissimo 18 mm, può essere intesa solo a manica distesa lungo il fianco, in quanto se fosse a manica flessa, una volta che distendesse l’arto, la manica della giacca coprirebbe inesorabilmente tutta quella della camicia. Aggiunga che, come già detto, se trovare il corretto rapporto fra le due maniche è già una delle improbe imprese del vestire su misura in una condizione facilmente riproducibile come quella dell’arto disteso, si figuri trovarlo dopo una flessione del gomito che ogni volta, a seconda di come viene effettuata, ripropone uno scivolamento reciproco in qualche modo diverso dal precedente e dal successivo, influenzato inoltre maggiormente da altri fattori variabili come il tessuto più o meno spesso dei capi, la fattura della manica e del giro manica, l’utilizzo o meno di magliette e così via. Trovi quindi la “sua” lunghezza a braccia distese, in posizione rilassata e il più possibile naturale, tenendo presente il paradosso che è il capo meno importante a prevalere: adatterà ovviamente le maniche della giacca a quella della sua camicia ideale in modo che quest’ultime sporgano di quanto le piacerà, non accorcerà quest’ultime se quelle della giacca dovessero risultare troppo corte. Meritano qualche parola anche i rapporti fra i polsini e il colletto della camicia: esiste infatti una relazione diretta tra quanto sporgono i primi e quanto il secondo sopravanzerà il colletto della giacca: senza ridicoli pronunciamenti si può dire che maggiore è la disparità fra le due misure e più si avverte una sproporzione, un senso di dissonanza che può essere voluto ma di cui bisogna essere consapevoli. Ne consegue che anche il rapporto fra i colletti dei due capi non è privo di conseguenze sui nostri polsini. Infine, del tutto personale, mi conceda di esprimere una personalissima preferenza: nel dubbio fra un millimetro in più o in meno di polsino sceglierei sempre il più, perché mi pare che la vista di una manica abbondante di ottima tela non disturbi quanto quella di una striminzita e spaurita, che sembra voglia ritrarsi sotto la giacca. E poi, col tempo, il cotone stringe sempre un po’. I migliori saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 05-02-2007 Cod. di rif: 2876 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Stanza d'arme Commenti: Egr. Gran Maestro, Stimati Cavalieri, L’angustia degli armadi è un problema che, prima o poi, attanaglia tutti gli appassionati di abbigliamento per la compulsiva esigenza che spinge ad avere sempre più armature per affrontare le quotidiane disfide e sempre più accessori per arricchirne il linguaggio. A questa inevitabile sorte sfuggono, che io sappia, tre sole invidiabili caste di guerrieri: coloro che, allocando in manieri di vaste proporzioni, posseggono sterminati spazi di stivaggio (già qui l’invidia è molta); i pochissimi che hanno la capacità di fornire ogni risposta con pochi, irreprensibili capi e un ristretto florilegio di complementi, liberandosi implacabilmente di ogni elemento non strettamente indispensabile (e qui si fa smisurata); i rari eletti incessantemente alla ricerca della quintessenza del vestire elegante, che sanno rinunciare sorridendo a tutto ciò che non corrisponde al loro artistico ideale di vita, di solito sofisticati esteti se non dandies addirittura (e qui neanche l’invidia sa più che dire). Ma fatta salva questa ristretta cerchia di baciati dalla Sorte, i rimanenti comuni mortali, la più parte, si dibatte fra il rimorso di eliminare abiti che sono ormai una parte di sé, autentici condensati di ricordi e l’impellenza (il piacere?) di dover creare spazio per i nuovi arrivati. L’ardua battaglia è resa più aspra da almeno tre onnipresenti alleati del nemico: i Capichenonsiusanopiù, ma che non si ha il coraggio di buttare perché ancora in buone condizioni, o pagati una fucilata, o perché potrebbero venir buoni; i Capisbagliati, che se ne stanno dolorosamente evidenti e senza la minima sgualcitura ad occupare uno spazio che sembra il triplo del necessario; e la Tatticadeltubinonero, adottata invariabilmente dall’altra metà del cielo per gettare una testa di ponte oltre le nostre munite trincee, che vedranno in rapida successione arrivare mezzo guardaroba di chemises e tailleurs. Mi trovavo dunque, Gran Maestro, proprio a questo partito, quando l’inaspettatta possibilità di traslocare in un appartamento in cui ricavare una cabina-armadio è suonata alle mie orecchie come la carica salvifica delle Giubbe Blu ai superstiti del 7° Cavalleria a Little Big Horn. Superato lo stupore che un concetto relativamente nuovo come la cabina-armadio non avesse un nome anglosassone, sono passato ad immaginarmi come potrebbe essere la nuova stanza d’arme: senza entrare in dettagli da internal designer (… appunto), le dirò che dovrebbe riuscire un poco più grande del solito armadio senza le porte, per cui la destinazione e la razionale organizzazione degli spazi risulterà non facilissima. Guardando gli allestimenti sulle riviste si propende per la convinzione che chi li appronta tenga abitualmente il proprio abbigliamento alla rinfusa in un baule tanto sono surreali: teorie di giacche (sempre tutte bianche) a venti cm una dall’altra alternate a pile di identici, sofficissimi maglioni (sempre bianchi), svolazzanti spolverini (bianchi: perché uno dovrebbe avere cinque spolverini bianchi?), cappelliere e scarpe: si scarpe e ci credereste? Nere! Il tutto disposto in modo che vestirsi al mattino non dovrebbe essere dissimile dal ballare “Giselle”. Credo invece che nella distribuzione degli spazi, in queste circostanze, si debba essere ferramente prosaici e appuntando le idee così come mi vengono, direi che occorre uno specchio a tutta altezza, gli accessori che si prelevano per ultimi al mattino come cappelli, sciarpe, guanti e fazzoletti debbano stare raccolti vicini, non so se le camicie necessitino proprio di quei cassettini bassi col frontalino in vetro, per la verità poco capienti, o possano stare impilate in normali cassetti più ampi, mi chiedo se cravatte e cinture debbano stare appese o meglio arrotolate in appositi cassetti suddivisi in scomparti, se siano necessari comparti separati per i cambi di stagione, quali altri trucchi e segreti ignori. Ma so per certo che le scarpe vanno altrove, in una dignitosa scarpiera. Sono sicuro, Gran Maestro, che molti di questi dubbi siano stati da lei già da tempo se non risolti affrontati con la solita acutezza e che potrà fornirmi qualche linea guida per non incorrere in irrimediabili svarioni. Mi appello altresì a quanti, fra i lettori, vorranno condividere sperimentate soluzioni che abbiano già in uso nelle loro stanze d’arme e tutti saluto cavallerescamente, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-02-2007 Cod. di rif: 2893 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Cabina-armadio uno: al Gran Maestro Commenti: Il pragmatismo e la sistematicità con cui affronta ogni cimento sono inesauribile fonte di stupore. Se a lei è occorsa una settimana per la progettazione della cabina armadio, temo che io dovrei prendere un’aspettativa al lavoro… Battute a parte, la ringrazio per l’articolata risposta e la preziosa offerta di consulenza di cui abuserò senza ritegno. Sono senza riserve d’accordo con lei sulla necessità che lo spazio del nostro guardaroba sia organizzato secondo criteri pratici e non (solo) estetici. Mi rimane però una perplessità, che ho già espresso, sulla commistione fra abiti e calzature, sempre che abbia ben inteso. Non, intendiamoci, pantofole, babbucce e ciabatte che ovviamente mi vedo tacitamente acquattate in un loro spazio nella cabina armadio, quanto per tutta la scarpiera col suo armamentario di lucidi, spazzole e straccetti e il suo seguito di polveri e sentori, per tacere del cirage, mal compatibili, a mio vedere, coll’essenza stessa del guardaroba, fatta di pulizia e ventilazione. So che gli americani amano impilare le scarpe fra gli abiti ma resto dell’idea che una gloriosa scarpiera (potendo tutta in legno aromatico, su misura, aerata, magari come si discusse un giorno nel suo Studio, con le ante a vetri) resti una ben altra cosa. Vorrei chiudere, inesauribile Gran Maestro, se già questo non è un usque tandem Catilina, con la sfacciata richiesta di uno schizzo a mano libera sul Taccuino di come organizzerebbe una cabina-armadio o un armadio-tipo. Va da sé che non potrebbe rispondere che alle necessità di un inesistente cavaliere-tipo, ma fornirebbe alle immaginazioni un poco fiacche come la mia un’ottima base di partenza per il successivo sviluppo di un progetto esente almeno dalle più vistose pecche progettuali. Se però questa proposta le pare un’irricevibile impertinenza, la consideri mai fatta e accetti già le mie scuse e i più cavallereschi saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-02-2007 Cod. di rif: 2894 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: CAbina-armadio due: all'Arch. Catalano Commenti: La ringrazio per il suo intervento, appassionato e competente. Il suo inquadramento del problema, giungendo da persona professionalmente coinvolta nella materia, risulta di particolare interesse. Potrei sbagliarmi ma la sua proposta mi sembra riconducibile alla attuale tendenza ad abbattere le separazioni fra locali consolidate dalla tradizione per creare un unicum privo di rigide assegnazioni di ruolo (qui cucino, lì dormo, là ricevo) e più fluidamente fruibile. Una visione che mi ritrova, con qualche riserva, d’accordo. Per quanto riguarda però la cabina-armadio, che nel caso specifico avrebbe dignità di locale e il privilegio di una finestra, non le nascondo che fatico –un limite mio- ad elevarla più di tanto al ruolo di spazio multifunzionale. Meglio, se fossi onesto fino in fondo, dovrei confessarle che una qualche deriva utilitaristica non posso escluderla, ma non oltre gli usi strettamente connessi alla manutenzione (stiratura, rammendo e quant’altro) dell’abbigliamento. In pratica la concepisco come l’esploso di un lungo armadio che abbia la possibilità di accogliere, oltre al guardaroba, anche le operazioni di manutenzione e il rito della vestizione, realizzando il sogno infantile di un lillipuziano che entra nell’armadio di Gulliver. Un ulteriore arricchimento del mobilio con imbottiti, tavoli e sedute sarebbe da ponderare con molta diffidenza, per non parlare di doppi accessi e pareti divisorie interne. Trovo tuttavia, forse per mancanza di sufficiente sensibilità e di cultura, che ai fini pratici sia meno importante la scelta fra armadio e cabina che quella dell’organizzazione interna dei due contenitori. Lì si gioca la partita e non si deve sbagliare, poi se ci si veste in apposito ambiente attrezzato o con altri rituali in camera da letto o altrove sono preferenze dettate spesso da esigenze e necessità che poco hanno a che fare con un razionale utilizzo degli spazi. A questo proposito oso estendere anche a lei l’invito avanzato al Gran Maestro: perché, quando ne avrà il tempo e se ne avrà voglia, non inserisce nei Taccuini un disegno a mano libera di come ha organizzato il suo armadio o di come pensa che si dovrebbe pensarlo? Provenendo da chi ha dimestichezza nella gestione degli spazi e nel trattare argomenti inerenti l’abitare, sarebbe di straordinaria utilità per chi come me dovrà confrontarsi col problema e anche per tutti coloro che pensano che una riordinata agli scaffali o la loro sostituzione sia una questione non ulteriormente differibile. Con questa impertinente proposta la saluto, non prima di averla ancora ringraziata e augurandomi di leggerla presto, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-02-2007 Cod. di rif: 2895 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Cabina-armadio tre: al Cav. Villa Commenti: Egr. Cav. Villa, La soluzione da lei adottata è di particolare interesse sia per l’insolita giustapposizione degli armadi (raro, in Italia, la soluzione a muro) sia per la contaminazione locale studio-armadio, che si riproporrebbe anche nel mio caso (forse però con la cabina). Con lei e l’architetto Catalano siamo dunque due a due nell’agone fra armadi più o meno tradizionali e più recenti cabine: sarebbe interessante l’intervento di alcuno che conoscesse alternative valide o solide motivazioni per spostare l’ago della bilancia. L’antico adagio recita che un disegno vale più di mille parole –pur delle sue tornitissime- pertanto rinnovo anche a lei se e quando ne avrà voglia, la proposta di disegnare (a mano libera, velocemente) e inserire nei Taccuini la sepimentazione degli spazi che ha così precisamente descritto: valida per lei ora, lo sappiamo, ma le esigenze dei cavalieri non sono poi così divergenti che non possa essere di grande utilità a molti e a me per primo. Ringraziandola sin d’ora se pur non lo farà, la saluto calorosamente ripromettendomi di incontrarla presto fra gli effluvi di Kalè. Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 14-02-2007 Cod. di rif: 2896 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Dietro la Lavagna Commenti: Egr. Gran Maestro, Dietro questa Lavagna, se fosse possibile, è dove meriterei di stare per la mia insipienza. Come infatti si evince dal testo, ho risposto alla sua sulla cabina-armadio pregandola perchè ne tracciasse uno schizzo, senza prima passare dai Taccuini dove aveva già inserito la succulenta documentazione iconografica che la illustra. Ne chiedo venia, vado ad indossare il cappello da Asino. Cavallerescamente, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 18-02-2007 Cod. di rif: 2903 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: La cifra giusta Commenti: Egrr. Sigg. Augusto Corbey e Arcangelo Nocera, Il vostro anatema contro la cifratura delle camicie, se ben intendo, poggia su di una duplice argomentazione concatenata: la cifre avevano in passato uno scopo pratico che oggi non sussiste, pertanto non hanno più alcuna utilità ergo chi le richiede oggi lo fa per esibire uno status, atteggiamento assolutamente deprecabile. Mi sia concesso di dissentire non tanto per difendere la mia condizione di cifrato quanto perché se applicassimo questo ragionamento per stigmatizzare i dettagli del completo cravatta resteremmo ben presto in mutande. Così a ruota libera: forse che l’asola al bavero sinistro ha oggi una qualche pratica utilità (e non mi si dica la boutonniere)? E nel doppiopetto che è addirittura doppiata a destra? E la catenella per fermare lo stelo di un fiore realizzata sul suo rovescio, che probabilmente lo stelo di un fiore non lo vedrà mai? Utilissimi, invece, i bottoni alle maniche: a parte i ridicoli che dicono che li tengono slacciati per rimboccarle quando si lavano le mani (ma cosa fanno giacca indosso per doversi poi lavare fino ai gomiti?) e la dubbia origine storica (sarebbero serviti per impedire ai marinai delle Loro Graziose Maestà Britanniche di soffiarsi il naso nelle maniche delle giubbe), mi risulta che la loro funzione sia oggi solo estetica. Sorvolo, perché di uso troppo limitato, sulle code del morning coat e del frack, ma non posso tralasciare i risvolti dei pantaloni che, nel mio caso almeno, oltre ad accorciarmi otticamente le gambe già corte raccolgono soltanto polvere e terriccio. Veniamo invece alla cravatta: evidente che senza rischieremmo malattie da raffreddamento a catena o, quantomeno, una indigestione da freddo e questo deve essere il motivo per cui la gamba si allarga verso il basso ed è sovrapposta alla gambetta, efficaci così contro gli stimoli perfrigidanti. Grazie al cielo, poi, possiamo esibire un fazzoletto da taschino, proprio ci colpisse la rinite possiamo almeno soffiarci il naso. Potrei continuare a lungo, per esempio accarezzando con gratitudine le pattine delle mie tasche che impediscono al nulla che ci metto mai di saltare fuori mentre mi scapicollo per la città, ma credo che quanto cerco di esprimere sia chiaro. In realtà nell’abbigliamento classico maschile, come illustra benissimo Tatiana Tosltoi nel suo “Manuale di eleganza maschile”, ci sono innumerevoli dettagli che hanno avuto una funzione pratica nel passato ma, esauritasi l’originaria funzione, sono rimasti come dettagli puramente estetici la cui perfetta inutilità, ma proprio per questo l’esecuzione necessariamente impeccabile, offrono la misura in cui un capo di vestiario si distacca dal suo scopo originario di coprire e proteggere e diviene un vestito. “Il bruto si copre, il ricco e lo sciocco si adornano, l’elegante si veste” ci ammonisce Balzac nel suo “Trattato della vita elegante”. Guai in questo campo a giudicare le cose solo dalla loro utilità pratica: perché mai, per restare alle camicie, dovremmo cercare telette non incollate, tanto meno pratiche delle termoadesive? E la plastica, così economica e versatile, non potrebbe sostituire la fragile e costosa madreperla? Quelle impeccabili asole a macchina non creano un effetto tanto più ordinato di quelle agucchiate dalle povere camiciaie sfinite da clienti iperesigenti? Veniamo ora alla seconda osservazione, che vorrebbe i cifrati volgari esibizionisti, alla ricerca di uno status (si presume raggiunto da poco). Non nego che in questo rilievo ci siano elementi di verità, tratti dall’osservazione di quanti ci attorniano. Ma, anche frequentando i Cavalieri e molti dei Simpatizzanti che animano il Castello, ho imparato come nel metalinguaggio del vestire una stessa manifestazione assuma significati diversi a seconda della persona e delle circostanze, proprio come nel linguaggio una stessa parola può avere significati differenti a seconda del contesto. Non credo che individui che ricercano appassionatamente i tessuti più straordinari, i sartori più abili, i calzolai dalle dita più esperte, vagano da una capitale all’altra per farsi confezionare una camicia da dinner suit, trovino necessario farsi ricamare le iniziali per informare il prossimo che la loro è una camicia su misura. Ci sono persone –superfluo dire che non mi sto riferendo al sottoscritto- che vestono con gusto straordinario, che alzando a caso lo sguardo per strada notate immediatamente in una folla di vestiti uguali per l’abito impressionante, il perfetto abbinamento dei colori, le scarpe che raccontano una storia, i quali portano camicie cifrate: perché così gli altri pensino: “Però, mi sa che quello si fa fare le camicie dalla camiciaia, mica va alla Rinascente!”. Ci sarà senz’altro chi vuol trasmettere questo messaggio, e lo farà anche slacciando le asole della giacca, ma non è così per tutti: per me, che non uso cifre in nessun altro caso (e utilizzando spesso panciotti e bretelle sono per lo più l’unico a sapere che la camicia è cifrata), è un vezzo che ingentilisce il capo con un dettaglio di preziosa manualità, interrompe l’immacolato nitore della biancheria con un guizzo personale di colore e, nella sua assoluta inutilità, mi ricorda che non mi sto coprendo ma vestendo: è poco? Per altri i significati possono essere diversi ancora (si veda al proposito l’approfondita discussione che si è già tenuta su questo argomento nella Scrivania del Gran Maestro e soprattutto l’opinione del Vicerettore Forni) ma è riduttivo liquidarli come esibizionismo finalizzato all’ostentazione di uno status. Vanità sì, intendiamoci, ma la vanità è il gesso di queste Lavagne. Ognuno sia libero di indossare camicie senza cifre, con cifre nascoste, con cifre in evidenza: sarà l’occhio di chi guarda ad attribuire di volta in volta il giusto significato, come un profumo indossato da uomini diversi può rivelarsi una nota stonata o l’essenza stessa della persona. Cavallereschi saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 18-02-2007 Cod. di rif: 2904 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: La cifra giusta: postilla Commenti: Egrr. Sigg. Corbey e Nocera, Chiedo scusa ma l'ora tarda mi ha fatto tralasciare una ragione ultima, ma non minore, per portare camicie cifrate. E' che mi fa sentire partecipe, se pure non erede diretto, di una tradizione gentile che è perdurata per secoli e la cui perdita di funzione pratica non impoverisce il significato simbolico (serve a qualcosa il Palio di Siena?). Questo è il motivo per cui le cifre le lascio lì dove sono state sempre, perchè come ben ha illustrato Corbey servivano a identificare un capo senza doverlo sciorinare e non le nascondo per falso pudore in qualche angolo irragiungibile, esattamente come non faccio tagliare l'asola del bavero sotto un'ascella o risvoltare i pantaloni all'interno della gamba. Almeno fino ad ora non debbo adontarmi delle mie iniziali e quelle due lettere, semplici semplici e in sobri colori, posso indossarle a testa alta. Corone ducali e peperoncini hanno invece significati altri, che certo intendete benissimo. Sempre cavallerescamente, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 04-03-2007 Cod. di rif: 2931 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Zefiro torna e 'l bel tempo rimena Commenti: Egr. Rettore De Paz, E' un piacere il suo intervento che da voce, pardon: gesso, al sentimento che proviamo di fronte a questi tepori e a queste luci più chiare. Ma se è facile condividere il suo entusiasmo per il timido affaccio della bella stagione, altro cimento è tradurlo in un desiderio concreto, in un concetto più preciso di guardaroba. Le confesso che quello per la mezza stagione -forse dovremmo dire "le" mezze stagioni- mi trova ancor più in difficoltà, dove tipologie di tessuti, pesi, disegni, colori, fogge sembrano confondersi rincorrendosi e sovrapponendosi a quelli delle stagioni canoniche, in una insidiosa terra di nessuno che ha molto del campo minato. Sbagliare un'oncia, un'armatura, un motivo, ci condanna inesorabilmente a rimanere al di quà o al di là del'equinozio, imbronciati testimoni della nostra inesperienza. Mi affido allora alla sua pluridecennale esperienza e chiedo lumi: da tempo vado pensando ad una giacca in lana per uno spezzato cittadino, di tono sportivo, da indossare in estate o nella seconda primavera su pantaloni di tela antracite o in tono, ma non riesco a focalizzarmi su di una tipologia di tessuto, un colore: mi tornano reiteratamente in mente, in una sorta di corto circuito, solo le armature a tela e le tonalità bruciate tipiche dell'autunno, che mal si conciliano con le luci e i colori della nuova stagione. Ha qualche suggerimento ispirato al classico internazionale, blazer a parte, che mi liberi dall'impasse? Ansioso di leggerla (l'orologio dei sarti è sempre avanti), la saluto con cavalleresca deferenza da questa Milano sorpresa che la Primavera sia arrivata anche qui: si sarà persa? Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 04-03-2007 Cod. di rif: 2932 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Asole: un poco di storia Commenti: Egr. Sig. Corbey, Non le dico il sollievo nell’apprendere che la condanna al rogo per cifratura dolosa è stata commutata nella proscrizione! Battute a parte, il suo pacato sense of humor e le sue saggie conclusioni sono il miglior contributo per riportare nell’alveo di un confronto costruttivo una discussione non scevra di qualche tono piccato, di cui mi riconosco per primo responsabile. E’ pur vero che un po’ di sana polemica è il pepe di ogni confronto ma solitamente sortisce l’effetto di arroccare le parti sulle loro posizioni e le guerre di trincea non sono certo quelle in cui si conquista di più il terreno della conoscenza, che è lo scopo di queste Lavagne. Va da sé che il discorso sulle sigle delle camicie e il loro significato e a maggior ragione quello sulla semantica dei dettagli dell’abbigliamento che hanno perso una funzione pratica immediata è ben lungi dall’essere concluso e sono facile profeta se pronostico che ne sentiremo presto (ri)parlare: già il Sig. Nocera ha rilanciato alcuni spunti interessanti. Forse è però il momento di lasciare un poco decantare la vexata quaestio delle cifre: rifletterci e guardarsi intorno, anche alla luce di quanto si è detto, non può che fare bene. Questa non è però una rubrica di bon ton, pertanto non mi limiterò alle considerazioni di cui sopra ma rilancio con un brevissimo excursus sull’argomento collateralmente sollevato delle asole (e dei bottoni, ca va sans dire) sulle maniche delle giacche da uomo e sulla loro presunta funzione. Ho citato in un precedente gesso, traendola da uno dei soliti manuali, la presunta origine dell’usanza nella marina britannica, dove il complesso avrebbe impedito ai marinai di soffiarsi il naso o forbirsi le labbra nelle maniche delle giubbe. Il Mendicini ci racconta che la funzione sarebbe stata quella di consentire l’apertura della manica per il passaggio della mano, in pratica come avviene per le camicie, quando la moda la prevedeva strettissima all’orlo. Castronerie! Chiunque abbia una giacca può verificare in tempo reale che potrebbero soffiarci il naso tutti i marinai di una portaerei senza che i bottoni possano alcunchè per opporvisi, né ha alcun senso cucire maniche da cui non passino le mani. L’origine deve essere un’altra, e infatti. George H. Darwin, astronomo e figlio del celebre scienziato padre delle teorie evoluzioniste, pubblicò nel 1872 una conferenza sull’evoluzione del vestito riletta attraverso le recenti (per allora) teorie del padre in cui traccia un’analogia fra gli effetti di mutazione e selezione nel mondo animale e in quello dell’abbigliamento. Egli afferma che la comparsa di novità nella società, per esempio l’affermarsi del treno a vapore al posto del cavallo come mezzo di trasporto, agiscono nel campo dell’abbigliamento come la mutazione in quello naturale, agendo sui dettagli –in questo caso le code delle giacche- che non hanno più alcuna utilità, provocandone dapprima l’atrofia poi la scomparsa. Ho trovato una traduzione in francese dal titolo “L’evolution dans le vētement”. Acqua ne è passata sotto i ponti perché si possa oggi acquisire sic et simpliciter la lettura di Darwin junior, ciò nondimeno resta di grande interesse per documentare, anche iconograficamente, certi passaggi che altrimenti rimangono a livello solo intuitivo. Un breve paragrafo è dedicato anche al motivo per cui le maniche maschili sono tagliate all’estremità ei due lembi chiusi da bottoni. Il Nostro sostiene che tutto origina quando gli abiti erano di stoffe preziose e costosissime: affinché non si macchiassero invalse l’abitudine di rivoltarne le maniche alle estremità dando origine alla moda dei paramani. Verso la fine del XVII e nel XVIII sec. i paramani furono ampiamente rivoltati e di conseguenza le sottostanti maniche delle camicie si accorciarono e si ornarono di pizzi. (v. Taccuino n. 3121). Successivamente i paramani si abbottonarono dietro una fila di bottoni che circondava il polso (Taccuino n. 3122), sebbene spesso fossero addirittura cuciti posteriormente e le asole ridotte a una sorta di galloni. Nelle uniformi militari i risvolti erano di colore diverso da quello dell’abito ed erano decisi dall’ufficiale che finanziava il reggimento, mentre i colori tipici di ogni corpo furono fissati molto più avanti. In seguito le maniche erano tagliate all’estremità per permettere di rovesciarle e lo spacco veniva fissato con bottoni e asole bordate (Taccuino n. 3123). Naturalmente nell’operazione due o tre bottoni restavano al di sotto del paramani, sicché col tempo, con lo stabilizzarsi della moda e il ritorno dell’uso di portare le maniche chiuse, invalse l’uso di cucire i bottoni all’interno della manica che veniva rovesciata in modo che si vedessero ad operazione conclusa. Un destino simile subirono colletti e baveri delle uniformi, di colore diverso perché originariamente all’interno e poi ribattuti su questa. Le maniche attuali (di allora, n.d.r.), con le eventuali decorazioni di galloni o, diremmo noi oggi, di asole, sono gli ultimi resti delle spropositate maniche rivoltate di quasi tre secoli fa (Taccuino n. 3124). Il lungo e un poco noioso condensato che ho fatto del capitolo darwiniano, lungi dall’essere esaustivo, mi sembra aiuti a dimostrare come dietro a un fenomeno apparentemente semplice come l’abbottonatura o meno di una manica, possa esserci una storia lunga secoli che andrebbe idealmente conosciuta perché il nostro sia un giudizio e non solo un pre-giudizio. Mi accorgo ora di aver abusato della pazienza di tutti per cui chiudo con saluti più cavallereschi che mai, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 12-03-2007 Cod. di rif: 2962 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Il Maestro e il Cantastorie Commenti: Stimatissimo Rettore, Non stupisce che sempre più internauti, pellegrini di oggi, cerchino ospitalità qui al Castello: queste Lavagne sono sempre più strumento irrinunciabile di formazione, uno Specchio delle Brame che scruta i nostri desideri inespressi, che mostra i luoghi lontani che non immaginavamo. Leggere delle sue proposte per la giacca della bella stagione, sapiente Rettore, è sfogliare un catalogo che stimola cupidigie profonde, davvero degne di Don Giovanni. Il suo ultimo gesso, poi, ha un profumo che vien di lontano, di sigari sì ma anche di imprese oltremare, di safari, di grande cinema, di auto coi raggi alle ruote: e mi fermo qui perché non è mia intenzione per ora entrare nel merito ma trattare del metodo, per sottolineare la differenza fra un maestro e un cantastorie. La stessa domanda rivolta allo stilista di turno avrebbe avuto una risposta del tipo: “Quest’anno proponiamo un uomo ironico, scanzonato, che sa prendere e prendersi in giro, che gioca sul contrasto fra il dettaglio sartoriale e l’accessorio osè, con capi spalla dalla realizzazione accuratissima (!?! n.d.r.) ma in nuances provocanti dal corallo al turchese, ispirate ai mari della Polinesia”. Se per caso e per fortuna non sono quell’uomo o mi adeguo o sono fuori dal giro. Nella sua risposta si coglie invece attenzione alla persona, lo sforzo di capire chi si ha davanti per consigliarlo al meglio. In quello scrigno che è il suo negozio bolognese se non sono convinto cambio tessuto; sul palcoscenico della moda devo cambiare me stesso (o perlomeno lo stilista). Un maestro fornisce strumenti di sapere, non sceglie al tuo posto; un cantastorie ti illude di essere Orlando anche se sei una marionetta. Cavallereschi saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 18-03-2007 Cod. di rif: 2970 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: La luce e le tenebre Commenti: Egr. Gran Maestro, I suoi recenti interventi sulle giacche della bella stagione hanno acutamente spostato il baricentro dall'oggetto della domanda, la giacca, al contesto in cui essa si colloca, la stagione e l'armonia intrinseca dello spezzato: il primo dev'essere subordinato al secondo, in quanto solo dalla consapevolezza dei loro rapporti complessivi scaturisce la risposta adeguata, nello specifico la giacca giusta. L'uso dell'antracite per i pantaloni, non-colore che sembra generato direttamente dalla notte, appare in contrasto proprio con la luce rinnovata di questi giorni. Sono infatti la luce e le tenebre, il giorno e la notte, da sempre i principi contrapposti eppure indissolubilmente congiunti che sottendono ad ogni universale ciclicità. Universale, certo, vista da questo nostro infinitesimale frammento sospeso nel vuoto cosmico, ma altri riferimenti non abbiamo e tutto misuriamo a partire da qui. L'eterno alternarsi dei due principi e la diversa durata e intensità con cui sono presenti stabilisce il succedersi dei giorni, delle stagioni e degli anni e con essi scandisce da sempre i ritmi dei viventi. Fino a due generazioni fa lo scorrere dell'esistenza era molto più intimamente legato a questi cicli naturali e l'essere umano non aveva ancora l'ardire di sostituirsi agli dei per negarli: era l'uomo a stabilire quando fosse Primavera ma in quanto egli per primo riconosceva alla Primavera il diritto di esistere; rivendicava il suo umano diritto a non subire aridamente il calendario, ma mai avrebbe accettato che lo si privasse delle stagioni. Oggi, che non riconosciamo più gli dei, la climatizzazione, le Maldive a Natale e gli abiti four seasons hanno reso un patetico luogo comune la constatazione che la cassaforte del nostro tempo è stata scardinata e le stagioni sono scomparse. Accettare l'alternanza dei due principi aveva ed ha però un'implicazione più profonda in cui fisica e metafisica della luce si embricano inestricabilmente e che porta a riconoscerne l'unitarietà di origine: i fattori che ci appaiono contrapposti non sono in realtà che condizioni differenti dello stesso elemento, noi li chiamiamo giorno e notte o estate e inverno ma, pur influenzandoci profondamente, sono i diversi stati fisici di una radiazione elettromagnetica, senza caratteristiche intrinseche di positività o negatività: attribuirgliene è un processo squisitamente culturale, non un dato di fatto. Il colore antracite in questa stagione ci appare dunque fuori luogo non tanto perché sia un colore negativo, sbagliato in sé ma perché non lo sentiamo più in armonia con un ambiente che sta diventando più caldo e luminoso, con colori vividi e squillanti, con la nostra anima che vorrebbe innamorarsi tutti gli anni. Chi veste lavagna in questi giorni non mi sembra infrangere le leggi del buon gusto o dell'interpretazione del registro formale, ma non si adegua al rapporto fra la luce e le tenebre che vige in questo momento, vuol strappare brutalmente dall'Ade la dolce Persefone senza aspettare che torni. Non è dunque un reato contro i codici il suo, ma pecca di hybris, infrange le leggi non scritte degli dei. Eppure a volte ci sentiamo come Odisseo, il bisogno di andare oltre spinge le nostre prue sui marosi anche se sono color antracite, vogliamo conoscere anche se non sappiamo che prezzo pagheremo: Numquam Servavi, dunque, e non sarà il più nero dei grigi a fermarci! Abbinare uno spezzato così sarà una sfida ma lei ha già dimostrato che si può vincere se non ci si ferma sempre alle scelte condivise. La stessa natura ci dimostra come anche nelle stagioni di mezzo sia possibile accostare le più cupe tonalità di grigio agli altri colori: con procedura del tutto insolita, per mostrarne gli effetti sorprendenti, inserisco nei Taccuini (dal n. 3156 al n.3160 ) una serie di scatti che non riguardano l'abbigliamento ma paesaggi possibile fonte di ispirazioni cromatiche. L'amico Cav. Villa, in un recente gesso, si doleva dell'attuale propensione di molti ad abusare del fumo di Londra negli spezzati e nei completi: ne condivo il disappunto per i secondi mentre per i primi mi sembra necessaria una distinzione. Senz'altro il blazer viene mortificato dai bigi plumbei, come si può vedere dal Taccuino n. 3161 che traggo da “Il Gentleman” di Roetzel, che illustra e descrive l'effetto del navy blazer su vari pantaloni; altri tessuti possono invece giovarsene: dallo stesso testo traggo il taccuino successivo, un esempio mi sembra assimilabile a quelli proposti da lei in precedenza -per i quali la ringrazio- e dall'effetto niente affatto sgradevole. Quindi una volta di più Fortuna Audaces Iuvat, anche se per non essere accusato di titanismo confesso di indossare senza ansia, oltre all'abusato antracite, calzoni in tutte le diciotto tonalità di grigio e di altri colori ancora. Cavallerescamente saluto e ringrazio lei e chi ha sopportato di leggerci fin qua, Alberto Longo P.S.- Se la Segreteria ritenesse non appropriati i Taccuini con foto di paesaggi che ho inserito me ne scuso e la prego di procedere senza indugi alla loro cancellazione. ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 27-08-2007 Cod. di rif: 3504 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: La regina d'Africa Commenti: Autorevole Gran Maestro, In questi giorni in cui l'estate sembra ormai preparare le valigie per l'altro emisfero, ripensavo all'invasione che abbiamo sofferto quest'anno sotto la canicola. Non di cavallette o altri biblici flagelli che lo stolido uomo occidentale pensa confinati a polverosi testi del passato ma di una giacca particolare. Particolare, almeno, fino a non molto tempo fa. La Capitale della Moda, come modestamente si definisce il decadente capoluogo lombardo, in questi mesi ne pullulava, show room e boutique ne proponevano di ogni tipo. Un capo la cui vista o, meglio, visione, era già confinata a qualche romantico film d'avventura o a qualche personaggio straordinario, si rivedeva dietro ogni angolo a rivestire manager e managerini di tutti i livelli, che la ostentavano con la baldanza di chi avesse finalmente trovato il capo che sposa formalità e insopprimibile voglia di avventura, alla faccia delle superate giacche da città. E la grinta nell'indossarle: i nostri giovani esploratori sembravano seguire le impronte nell'asfalto liquefatto senza incertezze, con la stessa determinazione con cui avrebbero pedinato l'ultimo rinoceronte bianco, ma ciò che si avvertiva era comunque un senso di sconcerto. Un capo creato per stagliarsi contro gli orizzonti tropicali era a disagio fra i grattacieli come una bellissima regina africana trascinata fra strade e costumi che non sono i suoi. La sahariana è certo più informale di una giacca e, rispetto alle sole maniche di camicia “veste” senz'altro di più ma siccome nel dress code due più due non fa sempre quattro, l'effetto non era quello di una intelligente traslazione da un ambito sportivo ad uno formale ma invece di spaesamento, come se si tornasse in ufficio senza cambiarsi dalla tenda sotto il Kilimangiaro. A tutto questo ripensavo leggendo poco fa le righe che ha scritto nel gesso in risposta al Cavalier Villa, che riporto di seguito: “La demolizione del nostro coriaceo sistema avviene attraverso quello che loro chiamano “contaminazione”, ovvero l’uso decontestualizzato delle fogge e degli stili in modo da privarli del DNA originario e immetterne altro con altri significati. L’Homo Elegans che voglia restare tale dovrebbe astenersi il più possibile dal favorire le trame nemiche tenendosi lontano o condannando apertamente ogni “fusion”, dalla cucina all’abbigliamento, in cui si avverta questa contaminazione decontestualizzante”. Non ignoriamo certo che le correnti convettive tra i vari ambiti di attività e i diversi strati sociali sono da sempre le forze che permettono alle specie che vivono in quel particolare ambiente che è l'abbigliamento maschile di evolversi e di sopravvivere ma “natura non facit saltum” e vedere sneaker e sahariane popolare di un botto le contrade urbane mi fa lo stesso effetto che sentire che, per l'innalzamento della temperatura e l'umana insipienza, il Mediterraneo si sta riempiendo di alghe venefiche e gamberi distruttivi. Mi si obietterà che è grazie all'utilizzo che l'aristocrazia di campagna britannica fece di abiti e scarpe in precedenza relegati ad ambiti altri (fossero l'equitazione o la caccia o l'agricoltura) nel diciannovesimo secolo, che oggi non vestiamo con ghette, cilindri o abiti a code e in questo c'è del vero. Ma allora lo sdoganamento era mediato da una classe che aveva una forte coscienza della propria identità e del proprio ruolo e avveniva comunque in intervalli prolungati, su cui agiva il filtro del tempo e del gusto e non nell'arco di una stagione grazie al fenomeno dello stilismo (si dirà così?) e alla globalizzazione dell'informazione e dei mercati. Oggi l'Homo Gymnicus si appropria con rapace prontezza di ogni proposta e, beato lui, ci si trova subito a suo agio, per quel tanto almeno che gli dicono che è attuale. A me, fossile malinconico e un po' sentimentale, vedere una sahariana fa ancora venire voglia di partire per non so dove. Non di andare in ufficio. ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 23-10-2007 Cod. di rif: 3570 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: I colori dell'erica Commenti: Stimatissimo Rettore, E' Autunno. Il termometro sceso e la luce che s'affioca ogni giorno di più ci ricordano che tra poco i Signori del gelo torneranno a dominare sul nostro parallelo. I colori però e la natura, in un ultimo empito ribelle, sembrano voler compensare la ore più brevi e la luce indecisa coll'ardore delle tinte, coll'intensità delle tonalità, colla sorpresa dei contrasti. Su questi colori riflettevo qualche giorno addietro, tinte che da noi ci deliziano in questa stagione ma alle latitudini dell'Arcipelago Britannico si dispiegano in molti mesi dell'anno e troviamo riflesse nelle stoffe più tradizionali di quelle isole. In quanti stringendo un tweed e chiudendo gli occhi per un istante, non si sono ritrovati in una brughiera scozzese, le eriche a macchie e la torba profumata tutt'attorno? E il Donegal? Il GM afferma che i minuscoli punti colorati siano fiori su un prato irlandese: ha ragione, perchè accarezzandolo ne sentirete anche il profumo. Dunque le chiedo: questi colori che hanno fatto e, speriamo in saecula saeculorum faranno, la storia dell'abbigliamento e dell'uomo, da dove derivano? Laboriosi processi industriali? Segreti estratti vegetali dalle contee più sperdute? Prodotti naturali tramandati di padre in figlio? Mi affido alla sua illimitata esperienza nel settore per poter arricchire un poco la nostra e cavallerescamente la saluto, perchè mi pare che nel tessuto della giacca sia rimasto un fiore d'erica e sembra voglia sussurrarmi qualcosa, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 06-11-2007 Cod. di rif: 3580 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: I pantaloni più belli del mondo Commenti: Egr. Gran Maestro, Provo un qualche imbarazzo a saccheggiare così scopertamente il suo immaginario cinematografico ma debbo ammettere che la tentazione è stata troppo forte. E’ pur vero che, avendo peccato di voyeurismo, ora son punito e non so più che fare ma chi avrebbe resistito al richiamo da lei diabolicamente lasciato sospeso di quei pantaloni (da lavoro) più belli di sempre Ma cominciamo da quel Gesso galeotto, quella Lavagna 1744 in cui rispondeva sui velli in cotone, i velluti, i fustagni, i moleskin, tessuti tutti che ci sembrano racchiudere molti paradossi semantici per la gioia di chi, come noi, va cercando anche il senso di quel che indossa: “Questo materiale heavy-duty” –vado a citare- “non si presta affatto alla costruzione con piega e tasche nella cucitura. Il più bel pantalone da lavoro di tutti i tempi, paradigma insuperato dei velluti, fustagni e moleskin con questa impostazione, è quello (in velluto color zucca) immortalato nel film “My Fair Lady” ed indossato dal signor Doolittle. Qualora Pugliatti, capace di queste imprese, possieda questo fondamentale capolavoro, lo prego di fornire all’umanità tutta questo esempio, che potremo così meglio commentare. In ogni caso si trattava di un pantalone basso di cavallo, largo alla coscia e stretto al polpaccio, dove nel film appare anche legato con un laccio. Le tasche sono alla carrettiera, sormontate da ampie fonde.”. Tessuti dalle molte contraddizioni, dicevo, perché escluso forse l’inusitato capostipite, il velluto di seta, sono interamente di fibra vegetale ma come nessun altro tentano di imitare la pelliccia degli animali, a partire dal nome. Se vellu-to deriva per l’appunto da villosus-peloso, il moleskin non è da meno citando direttamente la meravigliosa sofficità della pelliccia di talpa (avete mai accarezzato una talpa?). Perché nacquero molti secoli or sono in terra d’oriente per i fasti dell’aristocrazia e sono oggi tra i drappi più a buon mercato. All’origine e per molti secoli il costo elevato dovuto alle difficoltà produttive e al pregio dei materiali ne limitò l’uso alle classi che non lavoravano ma dal XVII sec. divennero i capi indossati per le attività manuali –è il caso dei pantaloni in questione- per tornare oggi, all’opposto, a simboleggiare il tempo libero, la lontananza spirituale dagli impegni quotidiani, il rilassamento*. Perché, infine, quella versatilità da lei una volta ricordata che consente loro di scorrazzare (quasi) liberamente nei territori dall’informale allo sportivo non li sottrae alla possibilità d’essere, in ogni caso e spesso meglio, surrogabili con specifici sostituti. Destino questo condiviso però anche dal rappresentante più sofisticato della famiglia, interprete sopravvissuto del ruolo originario, quel velluto liscio di seta che frequenta solo dandies sorprendenti e salotti di tendenza (ma dopo le diciotto). Fatto si è, Eccellentissimo, che capitatami l’occasione di un albionico moleskin canonico per peso, mano e colore (un caldo biscotto), mi ha punto vaghezza di scovare i pantaloni di Mr. Doolittle, loro compatrioti, per valutare la fattibilità d’una loro traslazione nell’Italia del ventunesimo secolo e far realizzare una snobbissima citazione cinefilo-vestimentaria. Mi sono così procurato lo straordinario “My fair lady” ed ho estratto qualche immagini particolarmente evocativa inserendola nella sezione Cinema e TV: se però avrà la bontà di sfogliarle, le parrà forse che l’ ampiezza inconsueta della coscia, la lieve scampanatura della gamba, nonché le desuete tasche “alla carrettiera” li renderebbero forse oggi più eccentrici del desiderabile. Le chiedo dunque, Gran Maestro, ed estendo la preghiera a quanti ardano per dare un loro parere, se stanati dall’Eden della memoria e riportati alla cruda realtà virtuale, i più bei pantaloni del mondo reggerebbero alla prova più dura che ogni amante del cinema debba affrontare: rassegnarsi a che gli eroi di celluloide non possano esistere nella realtà. Se invece per una volta, come ne “La rosa purpurea del Cairo”, il miracolo fosse possibile, ebbene sarebbe graditissima qualche osservazione da girare al Maestro sartore su come affrontare l’ardua impresa di tradurre in un cartamodello plausibile un esemplare straordinario di braghe da lavoro del Regno Unito di un paio di secoli fa, con particolare riguardo alla costruzione delle tasche. Non mi risulta infatti ben chiaro dalle immagini come siano costruite e tagliate quelle sorte di appendici elefantine anteposte alle tasche e il significato dei lacci sotto il ginocchio (per non far risalire il freddo?). Ringrazio anticipatamente lei e chi vorrà proporre suggerimenti in merito e auspicando che l’innominata Decima Musa canti al vostro fianco cavallerescamente saluto, Alberto Longo * Si veda sull’argomento l’esaustivo Gesso 1908 di A. Rizzoli ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 01-03-2008 Cod. di rif: 3683 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Avere o Essere? Commenti: Egr. Cavalier Lucchetti, In fondo l'interrogativo da lei posto potrebbe riassumersi nell'oggetto di questo stesso Gesso, uno dei dualismi fondamentali del pensiero umano da quando esiste, paragonabile nella sua sostanzialità all'altro tra forma e sostanza. Circa trenta anni fa Mondadori pubblicò un saggio di Erich Fromm su questo argomento -anzi, con questo stesso titolo- che analizzava in profondità i due concetti apparentemente contrapposti concludendo, se la memoria non m'inganna, per la superiorità di chi riusciva veramente ad essere, realizzandosi così pienamente come individuo, rispetto a chi finiva solo per avere. Va da sé che, non essendo di puro spirito, non si può essere solo essere (mi si passi il bisticcio), ma qualcosa bisogna pur avere. Importante teleria della mia città, qualche giorno fa: il proprietario mi raccontava di essere stato recentemente da un cliente che aveva un'intera cabina armadio solo per le camicie, circa cinquecento. In gran parte identiche. Ma neppure si contano gli aneddoti di emiri arabi che ordinano centinaia di paia di scarpe (su misura) all'anno, mafiosi russi che si fanno confezionare diecine e diecine di abiti ogni stagione e così via delirando. Ricordo un documentario televisivo in cui si ricostruiva la vita di una sorella dell’ultimo Zar la quale, in vita sua, non indossò mai un vestito due volte, riempiendo i sotterranei del palazzo con migliaia di abiti dismessi, al tempo in cui un abito da principessa costava come un vigneto pregiato o un mulino! Nulla di nuovo sotto il sole, quindi. Ora, possiamo ben comprendere il brillio negli occhi del commerciante all’idea di vendere chilometri di pregiati cotoni ma questi fenomeni sono interessanti non tanto perché scandalizzano l’uomo della strada, della serie uno schiaffo alla miseria, ma perché nel loro essere estremi ci danno una misura della normalità. Ma fino a quando o meglio a quanto si può avere pur continuando ad essere? A questa domanda ognuno deve dare una risposta personale, perché se non può esserci una misura valida per ogni fante, figuriamoci per ogni Cavaliere. Però alcune considerazioni sono opportune. La prima è che se le risorse economiche sono così inegualmente distribuite, le risorse di tempo lo sono invece in modo molto più egualitario e ciò fa sì che sia impossibile anche per un miliardario seguire con grande attenzione un capo se ne ordina centinaia. E’ esperienza comune di ogni appassionato la cura e la meticolosità che richiedono il progetto e la realizzazione di un capo, dalla scelta del modello e dei materiali, ai dettagli, alle prove, alla correzione dei difetti fino alla realizzazione dell’idea iniziale. Provate a cercare bottoni in corno del colore che vi serve nel lineato per il gilet o il cuoio di Russia per le scarpe e capirete cosa intendo. Si obietterà che, col denaro, si possono avere stuoli di artigiani che prevengono ogni vostro possibile desiderio: mi spiace, ma questo non sostituirà mai il rapporto diretto fra il committente e il Maestro, se non sceglie l’uno sceglierà l’altro al suo posto. Al massimo, se questi ha grande sensibilità e talento, potrà cercare di interpretare al meglio i desideri del cliente ma nulla più. Ordinando migliaia di capi si ottengono solo migliaia di cloni dello stesso oggetto, in una smania megalomanica che trasforma il piacere di esprimere il proprio essere anche attraverso un oggetto che ci rappresenti in un incubo da Apprendista Stregone in cui gli oggetti prendono il sopravvento e, minacciose repliche di se stessi, riempiono ossessivamente ogni tempo ed ogni spazio: è il trionfo dell’avere, l’annientamento dell’essere. Vorrei però fare un’ultima considerazione prima di posare il gesso. La cosa di cui si avverte di più la mancanza, nei casi estremi prima citati, non è tanto quella del senso della misura. Anche. Ma è quella della cultura. Manca la conoscenza profonda del metalinguaggio dell’abbigliamento, da quello dei materiali a quello delle fogge e dei costumi, manca la padronanza del Dress Code e ciò che manca in qualità viene sostituito dalla quantità. Infatti i capi ordinati son sempre gli stessi. Questa conoscenza non è data, la si acquisisce solo frequentando chi la possiede, gli ambienti dove si esprime e le fonti che la trattano e tutto ciò richiede tempo e passione, certo anche disponibilità, ma non è il fattore più determinante. Il GM racconta di un gentiluomo napoletano che veste con grande eleganza senza aver mai voluto in guardaroba più di una dozzina di capi; molti autori elencano quanti e quali ne siano indispensabili in un guardaroba e non si va mai oltre la dozzina. Certo, passando gli anni, se non si cambia molto fisicamente, potranno essercene il triplo, il quadruplo, ma oltre ha senso andare solo se le proprie scelte sono supportate da passione e cultura adeguate e mai giustificate solo dal denaro. Se indosso un abito costato una settimana di lavoro una sola volta e poi lo getto, cosa avrò dimostrato se non di AVERE una disponibilità di spesa? Ma se ho una collezione di scarpe che conosco e ho lucidato ad una ad una ecco che queste entreranno a far parte del mio ESSERE, perché ognuna di esse custodisce molto del mio tempo e della mia conoscenza e saprà parlarne a chi parlerà la loro lingua. Sbaglio se penso che, trovasse un tesoro da un milione di euro, non ordinerebbe domani mille paia di scarpe? Cavallerescamente saluto, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 06-04-2008 Cod. di rif: 3746 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Sempre ù Commenti: Egr. Sig. Signani, Non le sarà certo sfuggita l'importanza che il nostro Ordine attribuisce alla forma, oltre che alla sostanza delle cose ed anzi è probabile che sia uno degli aspetti che l'hanno sospinta dinnanzia a questa Lavagna. Il rispetto della forma si esplica tuttavia anche in una corretta grafia, mentre sui suoi gessi, per qualche misterioso motivo, compare una pioggia di accenti che non risparmia nessuna "u". Problemi di tastiera, di compatibilità di software, tic grafici? A lei l'ardua sentenza ma cerchi di risolvere il problema: i suoi scritti sono per noi la sua voce e il suo biglietto da visita e saremmo lieti che al suo distinto argomentare corrispondesse una pari correttezza nello scrivere. Conosco uno scrittore dandy che ha interamente ristampato a sue spese una raffinatissima (e parimenti costosa) edizione di una sua opera solo perché si era accorto che la parola "perché" era stata scritta con l'accento grave anziché acuto... non vorrà essere da meno! Ringraziandola per la comprensione che vorrà dimostrare per queste nostre debolezze, cavallerescamente la saluto, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 07-04-2008 Cod. di rif: 3748 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Il riposo del guerriero Commenti: Egr. Cavalieri, I recenti contributi apprezzabili sui Taccuini e su questa stessa Lavagna a proposito dell'abbigliamento domestico del gentiluomo ripropongono di fatto un argomento tanto intrigante quanto poco discusso. L'interessante rassegna sull’origine della dressing gown proposta dal Rettore sembra finalmente delineare il percorso evolutivo di questo capo nell'arco di tre secoli, da quello dei Lumi ad oggi: dalla banyan orientale alla dressing gown occidentala, alla loro sorella minore in tutti i sensi, l’odierna vestaglia. Per quanto tra un'aristocratica banyan e una vestaglia attuale corra la stessa differenza apprezzabile tra un veliero e una chiatta è verosimile che si possa documentare nel tempo un filo ininterrotto fra l'una e l'altra tipologia e tanto basterebbe ad attestare una lontana quanto riconoscibile parentela tra l’aristocratica ava e l’accessibile pronipote. Il signor Nocera nel recente Taccuino 3893 riassume invece un percorso, parallelo al precedente, che dal frok coat portò dapprima alla lounging e da questa alla smoking jacket per finire, negli anni trenta del secolo scorso, all'house jacket. L’argomento peraltro è già stato trattato e allo scopo si potranno richiamare i precedenti Taccuini del Gran Maestro, del Rettore e dello stesso Nocera, singolarmente coerenti fra loro nelle conclusioni. Dressing gown e smoking/house jacket sarebbero dunque capi ritrovatisi a convivere tra le mura domestiche ma di origini ben distinte, ciascuno chiamato ad interpretare un ruolo differente in virtù della propria peculiare ascendenza. Ruoli che oggi ci risulta forse più difficile definire ma che ancora qualche decennio fa dovevano risultare nettamente riconoscibili, decisamente più informale quello della gown, utilizzata al mattino dopo il risveglio e nell’intimità familiare; di maggior rigore la vocazione della jacket, arruolata in presenza di ospiti o, quantomeno, per cena e dopo-cena. Si aggiunga che la comparsa col tempo di esemplari ibridi fra le due specie tipo ha ulteriormente complicato la sistematica della famiglia undressed, cui si è -e non da oggi- affiancata quella dei capi nati per l’esterno ma indossati fra le pareti di casa. Una guida fondamentale alla comprensione del dress code casalingo e non solo è quella autentica gioia per gli occhi di “My fair Lady”, il capolavoro di George Cukor del ’64 che esibisce un’ininterrotta parata di paradigmi del vestire maschile (e muliebre) in tutto il possibile ventaglio di occasioni sociali, escluse solo la nascita e la morte. L’eccentrico gentleman interpretato da Rex Harrison sfoggia fra le pareti domestiche sia la dressing gown (Taccuino n. 3904) che la smoking jacket (Taccuino n. 3905), ovviamente rigorosamente confinate sui loro palcoscenici, così come abiti da giorno di tono informale accanto a maglieria di grande sapore (Taccuino n. 3906). Non è da meno Wilfrid Hyde-White nei panni di un colonnello amico del Nostro, che la sera si pavoneggia in una splendente vestaglia di seta che sfiora la formalità di una giacca da camera (Taccuino n. 3907), superandola di gran lunga nella magnificenza dei cromatismi. Appare chiaramente come in passato, anche fra le mura domestiche, l’aristocrazia adottasse un definito codice di abbigliamento in ossequio al quale ci si mutava d’abito a seconda dell’ora e dell’occasione, così come si faceva fuori casa, solo in un registro minore. Condicio sine qua non era certo la disponibilità di personale di servizio, senza il quale la manutenzione del guardaroba sarebbe stata insostenibile (nella casa del prof. Higgins, l’illustre linguista interpretato da Harrison, si contano ad un certo punto almeno sei domestici!) ma il cambiamento più profondo avvenuto rispetto ad allora è nel nostro rapporto con l’abbigliamento da casa che, più libero dai condizionamenti sociali di quello da città, è divenuto un interprete fedele più dei nostri stati d’animo che dei diversi momenti e occasioni delle giornata. Come? Forse è il caso di rinviare altre considerazioni ad un prossimo gesso, salutando per ora gli intrepidi che hanno affrontato il tedio di leggere fin qui. Cavallerescamente, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 11-06-2008 Cod. di rif: 3846 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: Una questione di... colletti Commenti: Egr. Gran Maestro, Cavalieri inesausti, La bella stagione che, fra alterne vicende metereologiche va ormai dispiegandosi, sempre più seduce gli occhi della mente ad indugiare sui capi che più intensamente evocano il rilassamento e il tempo libero. Quanto mai opportuna giunge dunque la disamina, peraltro già avviata in altri momenti, sulle camicie estive o, meglio, da tempo libero e la loro tipologia, recentemente illustrata su alcuni Taccuini. Nel merito ci si è focalizzati sui colletti senza pistagna, gli elementi forse maggiormente distintivi di questa biancheria, identificandone sostanzialmente due modelli, uno con e l’altro senza il cran. Vorrei qui produrre qualche ulteriore spunto di riflessione, in particolare sulla diversa origine dei due modelli, risalente in entrambi i casi al periodo tra la fine del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo. Il modello senza il cran che il GM chiama “caprese” deriverebbe addirittura, secondo Angiuli e Villarosa che lo definiscono invece “a pigiama”, direttamente da quello degli artisti romantici dell’Ottocento. Ma lasciamo subito loro la parola (agli autori, non agli artisti…): “Il colletto discende in linea retta dai colletti flosci dei poeti del primo Ottocento come Byron e Shelley. Da bravi anticonformisti rifiutavano i rigidi colli inamidati dell’epoca per indossare comode camicie con un fazzoletto di seta nera annodato a cravatta (Taccuino N. 4026). Questo colletto in pratica è costruito in modo da non essere abbottonato al collo. Rimane sempre aperto ed è solitamente abbinato a una camicia a maniche corte che, si presume venga portata senza cravatta. Nulla vieta però di costruire anche una camicia a maniche lunghe con questo colletto che può d’altro canto accogliere un foulard annodato attorno al collo e infilato all’interno della camicia.”.* Inserisco l’immagine della camicia che correda il testo nel Taccuino N. 4027. Mi sembra interessante illustrare anche un uso del capo meno disimpegnato dell’attuale, che evidentemente era concesso nei primissimi decenni del Secolo Breve: un ritratto di Somerset Maugham nel 1931 ad opera di Philip Steegman, in cui lo scrittore porta la nostra camicia ma a maniche lunghe sotto una giacca, col colletto sopra quello della giacca stessa, come si farebbe oggi con un maglione (Taccuino N. 4028). Il personaggio è un artista e la situazione rilassata ma attesta che un colletto così si indossava con la giacca. In tempi più recenti abbiamo invece un testimone d’eccezione dell’uso attestatosi di questa camicia, decisamente solo informale e vacanziero, il Duca di Windsor a Portofino a bordo di uno yacht nel 1951 (Taccuino N. 4029). Per rimanere in Liguria, anche il celebrato Finollo produce camicie con colletto a filo delle mostre che chiama “sport”, come ci testimonia Ivano Comi: “Il bellissimo colletto ‘sport, , destinato alle camicie sportive, viene manufatto in un solo pezzo e privato della pistagna. In questo modo, essendo portato slacciato, non si vede la ribattitura del tessuto e l’insieme acquista una particolare morbidezza.”.** Ho avuto la fortuna di trovare una foto in bianco e nero dei capolavori finolliani su un libretto apologetico dedicato al Maestro genovese, che inserisco nel Taccuino N. 4030. Il colletto che invece abbiamo chiamato “riviera”, sempre senza pistagna ma caratterizzato da una sorta di cran fra colletto e bavero, illustrato dal Cav. Nocera nel Taccuino N. 4023, mi pare ricalcare invece pari pari la costruzione delle “Aloha shirt” (Taccuino N. 4031), che in Italia chiamiamo camicie hawaiane e derivano dalla “palaka”, la camicia bianca dei lavoranti delle piantagioni (Taccuino N. 4032) che ai primi del Novecento cominciò ad essere decorata con motivi floreali ispirati al “tapa”, l’indumento degli indigeni locali e divenne in seguito il souvenir più usitato di quelle lande. I due colletti avrebbero dunque una discendenza affatto diversa fra loro, anche se successivamente si è sicuramente verificata una convergenza evolutiva nelle fogge, nei materiali e nelle fantasie, legata ai contesti analoghi in cui vengono utilizzati. Augurandomi che la pedanteria della ricostruzione non abbia fatto passare a nessuno il desiderio di ordinare alla propria camiciaia almeno una dozzina di camicie per tipo di colletto, mi congedo con un benaugurante Aloha, Alberto Longo Bibliografia * Emanuela Angiuli, Villarosa Riccardo, La camicia, Idealibri S.r.l., Rimini 1999 ** Ivano Comi, Conversevole week-end sull’eleganza maschile, Sefanoni, Lecco 2000 *** AA. VV., Finollo: cent’anni, De Ferrari Editore, Genova 1999 ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 06-01-2009 Cod. di rif: 3950 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: À la guerre comme à la guerre Commenti: Nobili e Pazienti Cavalieri, La valutazione dell’opera di un nuovo Maestro, come sa chi si sia trovato nel frangente, è un complesso percorso che costringe ad una sintesi non solo tra elementi tecnici –e già non sarebbe semplice- ma anche e soprattutto fra piani diversi, cito solo ad esempio quelli del rapporto interpersonale e del confronto con altri Maestri. Ne deriva che i giudizi siano spesso soggettivi e variabili nel tempo in relazione anche al nostro personale iter formativo, alle nostre conoscenze e, perché no, al modificarsi dei nostri gusti. Chi nel tempo abbia vagato negli sterminati territori che questa Porta protegge sa bene cosa intendo. Tutto questo apparteneva al passato: annuncio con orgoglio di aver trovato una semplice formula che assicura non solo un giudizio uniforme e permanente sull’opera di un Maestro ma anche confronti imparziali con gli altri artigiani! Ci avete creduto? Sono certo di no. Sinceramente non mi augurerei proprio che una simile formula esistesse. Si inserirebbero i dati richiesti nello smartphone di turno e istantaneamente ne uscirebbe il voto assegnato. Vengono i brividi! E il divertimento? Avremmo classifiche, tabelle di confronto, giudizi sintetici espressi in forbici o altri strumenti (sai, è un tre forbici di E***! Quest’anno M*** gli ha tolto l’ago d’oro…) come accade per ristoranti, pellicole, palestre, vini, barche e quant’altro gli esperti di turno ritengano di poter sintetizzare in un voto comunque espresso. Una pratica mortificante in cui i Cavalieri non si riconoscono. Meglio dunque tenersi i dubbi, le incertezze e gli errori che sempre accompagnano questa esperienza e la rendono così umana e formativa, che percorrere strade che non ci appartengano. Ma, sia chiaro, in battaglia un Cavaliere va armato: non è mai certo della vittoria ma non si fa cogliere alla sprovvista. In questa tenzone ogni conoscenza ed ogni espediente può essere utile e conoscerlo può fare la differenza. Si discuteva a tal proposito con un valente Scudiero, che esprimeva in particolare le sue perplessità sulle cuciture a macchina degli interni (degli abiti, ovviamente) proposto da un Maestro che è andato recentemente a visitare. A mio avviso fondatamente. Ma non per un’irragionevole ostinazione a richiedere una manualità fine a se stessa in ogni fase della realizzazione, non perché sia giusto a mano e sbagliato a macchina. La differenza sta nella diversa realizzazione delle due operazioni e nel come diversamente lavorano. Poiché un disegno vale mille parole, per meglio chiarire inserisco direttamente un Taccuino al N. 4205. Concludo inviando cavallereschi auguri per il Nuovo Anno a Cavalieri e Simpatizzanti, lieto se qualcuno vorrà condividere le sue esperienze nel confrontarsi con nuovi Maestri, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 06-03-2009 Cod. di rif: 3992 E-mail: gentleman.driver@tiscali.it Oggetto: HRH Commenti: Egr. Gran Maestro, Riporto di seguito un articolo apparso in questi giorni sul sito internet di un quotidiano nazionale, che riprende un articolo di Esquire. A prima vista sembra la solita classifica amata dall'H. gymnicus, soggetto del caso "l'uomo più elegante del mondo": "…è il principe Carlo d’Inghilterra. Lo ha stabilito il mensile (rivolto a un pubblico prevalentemente maschile) Esquire, con un voto di giurati e un sondaggio. L’erede al trono viene lodato per uno stile classico, indossato con sobrietà e buon gusto, che si tratti delle sue caratteristiche giacche doppio petto, con camicia a righine, cravatta di seta, fazzoletto nel taschino; o di completi più casual, come la camicia bianca dal colletto aperto con cui lo ha immortalato il fotografo Mario Testino; o di abiti da “countryside”, giacconi di pelle ruvida, maglioni di lana grezza, pantaloni di velluto a coste, scarpe da trekking o stivali da pioggia. Esquire rivela che, nel suo castello, il principe ha un’intera stanza orchestrata come la sala di prova di un sarto. E, per chi spera di imitare il suo stile, il mensile svela i sarti di cui si serve Sua Altezza: Austin Reed; Anderson e Sheppard, sarti della celebre Savile Row; e Frank Hall Tailoring, un sarto di Market Harborough, nel Leicestershire. Il principe di Galles ha battuto, nella graduatoria di Esquire, il presidente americano Barack Obama, giudicato anche lui interprete di un’eleganza soft, nonostante la famosa foto della campagna elettorale in cui accavallando le gambe su una scrivania rivelava buchi nella suola delle scarpe, sinonimo della sua indifferenza per il vestire; seguono il tennista Roger Federer, il cantante di rap Andre 3000, l’attore Bill Nighy. Tra i leader peggio vestiti, Esquire cita il primo ministro britannico Gordon Brown e il sindaco di Londra Boris Johnson. Chi pensa che l’abbigliamento dei potenti sia poco importante, dimentica una delle poche domande che riuscirono a fare arrossire Bill Clinton durante una conferenza stampa alla Casa Bianca. Una giornalista si alzò in piedi e gli chiese: presidente, scusi la curiosità, ma sono boxer o slip? E Clinton, tipicamente, diede una delle sue risposte oblique: “Slip, ma talvolta boxer”.". Ha di recente ribadito il senso di queste classifiche, così tipiche della weltanschaung gymnicus che forse non val la pena di tornarci; è inoltre scontata la considerazione che il vincitore NON sia effettivamente l'uomo più elegante del mondo, evidentemente un'entità metafisica, ma solo il più votato fra i (pochi) nomi proposti dalla rivista. Non è una differenza da poco. Il podio, cionondimeno, offre più di uno spunto di riflessione. Innanzitutto che il vincitore, in piena era gymnicus, è un elegans. E già questo appare strano. Il blasone, va da sé, conta anche in quest'epoca democratica ed è evidente che nel confronto con un rapper o un tennista può risultare determinante. Ma se il confronto è con "l'uomo più potente del mondo", nello specifico un personaggio carismatico come Obama, dobbiamo concludere che lo scontro, su questo piano, si è svolto ad armi pari e quindi il giudizio non dovrebbe esserne stato influenzato più di tanto. Nell'esaminare il risultato dobbiamo tener conto di almeno due "bias", cioè due elementi di distorsione: il primo è che lettori e giuria di una rivista come Esquire hanno verosimilmente un concetto dell'eleganza piuttosto tradizionale, di ispirazione "classica" in senso cavalleresco e quindi sono più in sintonia con l'abbigliamento principesco che con quello presidenziale. Il secondo è che la stessa definizione di "elegante" è associata (anche dai Gymnicus, che pure alligneranno fra i lettori di Esquire) all'abbigliamento maschile tradizionale e quindi, dovendolo attribuire all'interno di quella rosa di candidati, lo assegnino a quello che corrisponde di più al loro stereotipo dell'elegante. Per meglio chiarire, se fosse stato loro chiesto quale abbigliamento considerassero più affascinante o seducente o consono ad un leader, le percentuali di gradimento sarebbero state sicuramente diverse, proprio perché l'eleganza oggi non è più un fine ma un mezzo. L'eleganza di HRH non appare invece avere secondi fini. Un'altra possibile riflessione la offrono le bassissime percentuali ottenute dagli altri concorrenti nel sondaggio fra i visitatori del sito del quotidiano (che certo non sono un campione sovrapponibile ai lettori di Esquire): non vanno oltre il 5 %. Sorprende invero constatare come gli stilemi del classico, ormai appartenenti a un passato ancorché recente, vengano tuttora apprezzati e considerati "più eleganti" di quelli dell'epoca delle palestre, cui pure si richiamano i più. Sarà per il succitato riflesso condizionato classico=elegante ma certamente anche per la maggiore valenza estetica intrinseca, avvertibile anche senza un'adeguata formazione, del vestire classico, esattamente come il Colosseo ci appare più "bello" dell'Olimpico. Un'ultima considerazione e poi le cedo la tastiera: cadono le braccia nel constatare che, nella considerazione finale dell'articolo, tutta l'importanza dell'abbigliamento come metalinguaggio anche e soprattutto del potere in tutte le sue forme, sia ridotta al gossip delle mutande di Clinton, sciatto ammiccamento alle sue vicissitudini di (sotto)scrivania. Gli indichi la luna e vedono il dito. Troppo ho sproloquiato, Maestro, è tempo che taccia e attenda, se la riterrà opportuna, una sua glossa di ritorno dalla Città Eterna. Cavallerescamente saluto Lei e i Cavalieri tutti. Alberto Longo http://seidimoda.repubblica.it/home ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 16-11-2009 Cod. di rif: 4201 E-mail: longoalberto@fastwebnet.it Oggetto: Pedibus calcantibus Commenti: Invitto Gran Maestro, Inossidabili Cavalieri, Sarà che la sofferenza, come da sempre insegnano i mistici di ogni credo, è feconda di profonde meditazioni, saranno i recenti, stimolanti interventi su forme e calzature ma da qualche tempo vado ripensando al mio rapporto con le scarpe. E, di conseguenza, a quello fra artigiano e cliente o -addirittura- fra Maestro e committente. Il motivo è, appunto la sofferenza. Il dolore. Il tormento che mi provocano tre scarpe su quattro di quelle manufatte, fenomeno che non constato con quelle di serie. Il settantacinque per cento dei fallimenti è un risultato in grado di raffreddare parecchi entusiasmi e debbo confessarle, Maestro, che anche la mie solide motivazioni cominciano a vacillare. Come credo sia capitato a molti, mi sono avvicinato al bespoke della calzatura solo successivamente a quello dell'abito e già questo è interessante da indagare: com'è che si pensa alle scarpe su misura solo dopo essersi addentrati non poco in quel campo e per molti il momento non giunge addirittura mai? Il rapporto quantitativo fra sartori e maestri calzolai la dice lunga sul fatto che se già non sono molti coloro che si fan fare un abito sono meno assai quelli che si fan fare le scarpe. Son certo inoltre di non sbagliare dicendo che, fra questi, una percentuale significativa è spinta da difetti posturali o anatomici e non da esigenze squisitamente estetiche (aspetto questo riscontrabile anche in sartoria). Possiamo tentare di identificare alcune delle ragioni di questo squilibrio e chiedo soccorso ai fini osservatori che sostano sugli spalti per scovarne delle altre. La prima è, a mio avviso, insieme economica e sociale. La middle class che si rivolge al mondo del bespoke investe del denaro e si aspetta, ragionevolmente, non solo un prodotto di qualità che duri e sia comodo ma anche una gratificazione estetica e un riconoscimento sociale, un ritorno in termini di visibilità. Ciò è più facilmente realizzabile con un abito che con un paio di scarpe, in primis perché un abito, ad occhi profani, “si vede” prima e meglio di un paio di scarpe. Non occorre essere Brummell per capire se un capospalla sia di un colore che doni, calzi a pennello, snellisca, ringiovanisca, nobiliti e quant'altro, è molto più difficile affermarlo per un paio di scarpe sia perché solo chi le calza sa se siano veramente adatte al suo piede sia perché solo un occhio molto esercitato è in grado di cogliere al volo i dettagli che distinguono la calzatura di grande costruzione dalla scarpetta industriale. In conclusione il meccanismo, probabilmente inconscio, per i più che si rivolgono al su misura solo per status o per necessità (misure fuori standard), è il seguente: spendo per un abito e se ne accorgono tutti, spendo per le scarpe me ne accorgo solo io, per cui: perché spendere? Dunque l'abito fa più status, è più riconoscibile. "Indossare un abito su misura, calzando carpe di serie, è come servire dello champagne millesimato in una flute di plastica. Tutte le scelte sono lecite, anche quelle sbagliate, si potrà rispondere. Certamente. Ma lo Stile e tutta un'altra cosa!"* Questa citazione del Comi, apodittica come nel suo stile, riassume però bene l'atteggiamento mentale diametralmente opposto a quello di cui sopra, ma non è completamente condivisa nemmeno da soggetti la cui cura per il vestire sia al di sopra di ogni sospetto, che girerebbero a torso nudo piuttosto che indossare capi di confezione ma calzano scarpe (magari ottime) di serie. Un'altra ragione è senza dubbio la difficoltà ad accedere alla cultura della scarpa in generale e su misura in particolare. Non che che questa, al contrario, tracimi nel campo dei vestiti ma per le calzature la situazione è ancora più difficile, pochi i committenti competenti e le occasioni di confronto, sporadici i testi di riferimento, rari i Maestri e le botteghe, l'appassionato è solo a salire un impervio sentiero fatto spesso di esperienze così frustranti nell'animo e torturanti nei piedi che lo scoramento e l'abbandono sono l'esito frequente dell'avventura. Aggiungerò una difficoltà tutta mia a percepire la corrispondenza delle misure proposte a quelle effettive: l'ansia della prova attesa, il sentore dei cuoi e delle conce, quei pochi passi riguardosi sul tappeto del Laboratorio… a me sembra sempre, savio Maestro, che siano pantofole queste benedette scarpe, si appoggiano come un peplo al collo del piede, fasciano morbide il metatarso, abbracciano sperone e punta senza mai costringerli e camminando poi: un tappeto volante! Una volta consegnate, pochi minuti di camminata rivelano la loro natura di stivaletti malesi che azzannano feroci le carni senza concedere tregua, qui abradono, lì escoriano, sopra son flitteni, sotto calli, bolle e tilomi, una guerra senza quartiere e si ha voglia a riportarle, stirarle, forzarle, allargarle: non c'è redenzione, una scarpa che non calzi alla perfezione da subito ha solo un destino davanti: rifatta o abbandonata. Ma dove sbaglio, Maestro? Dando per scontato che gli artigiani cui mi sono rivolto sono calzolai fatti, coi baffi, con all'attivo migliaia di scarpe, il difetto è tutto mio: non riesco a capire quando una scarpa andrà bene, non so riferire quali correzioni apportare, non mi accorgo di dove la pelle tocca e stringe: c'è un segreto, un trucco, un sapere esoterico che mi sfugge? Si può evitare che tre scarpe su quattro divengano strumenti di tortura? A lei, Gran Maestro, che calza con noncurante soddisfazione decine di stringate e mocassini, a voi soccorrevoli Cavalieri rivolgo la domanda. Un cavalleresco, dolente saluto, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 21-02-2010 Cod. di rif: 4285 E-mail: longoalberto@fastwebnet.it Oggetto: Omnes feriunt - risposta al Gesso 4240 Commenti: Profondo Maestro, Le sue ambite risposte sono ormai delle vere Summae in cui il piano sapienziale e quello esperienziale si intrecciano e si compendiano: lette e credute assimilate, ad ogni rilettura se ne traggono nuovi elementi, ulteriori spunti di riflessione e di crescita e in questa forse ancor più che in altre. L'aneddoto che ci ha narrato sull'ammirevole de Sury, stoico Cavaliere, ci riporta alla mente, col respiro di un racconto zen, la figura del tenente Angustina: mi sembra di vederlo attraversare questa nostra Bastiani, per servizio o per piacere, claudicando silenziosamente con un dolore per tutti senza senso. Per tutti tranne che per lui: noblesse oblige, ora come allora, ma come scandalizza, oggigiorno! Non ho scordato il suo illuminante intervento all'ultima Shoes Academy, ora più chiaro, evidentemente quintessenza di decenni di sofferto "su misura": la calzoleria è davvero come la pasticceria, qui i millimetri là i grammi, la più piccola variazione e il risultato è può essere un disastro. Non so se lo si intenda da queste righe, Maestro, ma provo il conforto e la gratitudine di chi, in ginocchio per l'ennesima caduta e sentendo venir meno la determinazione per continuare, venga invece rialzato dalla sua guida e, spronato con l'esempio e la parola, ritrovi il senso dell'andare. Le sue righe mi hanno aiutato a comprendere che il gradino su cui inciampiamo è quello che, superato, ci porterà più in alto. Toglierò dalla scarpiera il cartiglio “Omnes Feriunt – Ultima Necat” che v'avevo apposto e, raddrizzate le spalle, affronterò il mio destino. Su misura, come un paio di scarpe. Cavallerescamente, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 30-04-2012 Cod. di rif: 4601 E-mail: longoalberto@fastwebnet.it Oggetto: Il vestito dell'anima, l'anima del vestito Commenti: Dobbiamo essere grati a Pugliatti per averci deliziato col recupero del brillante articolo di costume sulla sartoria napoletana. Premio alle sue fatiche sarebbe stato anche solo farci leggere quel limpido italiano di mezzo secolo fa, senza il profluvio di anglicismi, acronimi e neologismi che appestano ogni rigo presente. Non vi sembrava, leggendo, di essere al passeggio tra Riviera di Chiaia e Via Caracciolo, un sabato mattina in primavera? Ma a me pare che ben altro sia il merito dell’operazione. Un pezzo leggero, di colore apparentemente, ma va dritto al cuore dell’essenza del su misura, aumenta la definizione attorno ad un concetto che qui al Castello più volte si è intervenuti a proclamare e a difendere: perché vestire su misura e di conseguenza, perché no. Anche recentemente ai massimi livelli è stato ripetuto che chi veste su misura non lo fa per avere un abito “più bello”. Chi non comprende perché ci si rivolga a un sarto parte invariabilmente coll’affermare che ormai il su ordinazione ha raggiunto tali livelli di qualità e personalizzazione da rendere l’abito difficile o impossibile da distinguere da quello di un maestro e dunque perché sprecare tempo e fatica se il risultato non cambia? Non cambia? L’avventura di tanti eleganti e sarti, così gustosamente descritta dallo Stefanile, illustra meglio di qualunque dissertazione le motivazioni di chi, in una scelta sartoriale, cerca quella via personale e quindi unica (seppur simile a cento altre) che gli permetta di racchiudere in un abito l’essenza stessa di sé, quella summa di esperienza, gusto, vanità e aspirazioni unici perché solo suoi e che richiedono la maieutica di un rapporto personale per estrinsecarsi in un abito. Rapporto inoltre, che nella mia esperienza è condizione necessaria ma non sufficiente: dove non ci sono anche stima e disponibilità all’ascolto, virtuosismo magistrale ed esperienza personale non basteranno, il “vostro” abito non ci sarà. Né tanto meno ci sarà nel rapporto mediato da un commesso cui, per abile che sia, non potrà in fondo importare molto l’effetto di un abito di cui non è responsabile e men che meno che esprima ciò che voi siete o vorreste essere. Se vi sta (abbastanza) bene, potrà benissimo fare a meno dell’anima, in particolare della vostra. Ogni scelta è una rinuncia: di cosa possiamo veramente privarci? Un cavalleresco saluto, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Alberto Longo Data: 25-05-2013 Cod. di rif: 4750 E-mail: longoalberto@fastwebnet.it Oggetto: La Stella Polare e le patelle Commenti: Egr. Sig. Gigante, Non le nascondo, giunto al fondo del suo ultimo intervento, un leggero senso di vertigine. La sensazione è quella di patelle, spacchi, risvolti e stringhe che volteggiano in un turbine scomposto, combinandosi e scombinandosi senza tregua, inafferrabili e frustranti: un autentico girone dantesco degli Eleganti. Calma. La immagino giovane, forse molto, almeno nell'attuale considerazione e alle prime frequentazioni sartoriali: non credo si meriti (ancora) la condanna a una simile pena. Innanzitutto, non abbia così paura di sbagliare. Sbagliare, nel commissionare i primi capi, non è inevitabile: è necessario. Si sbaglia, certo, perché non si ha ancora quel bagaglio di conoscenze che solo Maestri sapienti, giuste letture e il tempo ci possono dare ma soprattutto perché si crede che esista la ricetta “giusta”: due spacchi qua, due patelle là et voilà, l'abito perfetto. Non è così. Le uniformi militari sono codificate nei minimi dettagli in base all'evento cui sono destinate; per gli abiti civili, come intuisce, è diverso. Il grande abito nasce solo dall'alchimia riuscita tra un committente che sa ciò che vuole e un artigiano che sa come fare e non c'è bisogno che le ricordi la differenza tra un manovale, che lavora con le mani; un operaio, che lavora con le mani e col cervello e un artigiano, che ci aggiunge il cuore. Le dirò di più: trovasse la formula magica per il suo abito, cui fosse giunto dopo aver letto tutti i libri, aver chiesto a tutti gli esperti e scartato tutte le altre soluzioni, riguardando quell'abito dopo due lustri (ammesso che ci entrasse ancora) si chiederebbe come abbia potuto commettere simili errori, nel tessuto, nel colore, nei baveri, nella lunghezza delle maniche, nella fodera... devo continuare? E su questo punto accetto scommesse anche forti. Faccia del suo meglio per non sbagliare ma poi sbagli serenamente, lo abbiamo fatto tutti e continuiamo a farlo e sa perché? Il perché pochi lo dicono e di quei pochi si fidi: il vero motivo per cui siamo appassionati di questo impervio "mestiere" è che è divertente. Sì, divertente. Si diverta anche lei, senza farsi soffocare dalle regole, dai precetti, dalle graduatorie, dagli "orrori da evitare", altrimenti non lo praticherà a lungo. Ha avuto, forse senza averne piena contezza, una grande fortuna: le sono stati indirizzati in pochi giorni due dei gessi più profondi e pregnanti mai vergati su queste Lavagne, che pure ne hanno mostrato di straordinari. Il Gran Maestro ha scritto per lei due autentiche "tavole", come avrebbe potuto consegnarne a un discepolo, in cui ha distillato tutto quello che le occorre sapere: non le ha detto svolti a destra, cento metri poi a sinistra, le ha detto guardi in alto, non il mio dito, più in alto: quella è la Stella Polare! Non le ha spiegato la strada, le ha indicato "la via". Ma forse lei è ancora troppo giovane. Vuol proprio saper di patelle? Non sono nessuno e, in massima umiltà, le propongo qualche suggerimento spicciolo: la tasche le faccia con le patelle, ma col friso. Se vorrà le mostrerà, in caso contrario spariranno nelle tasche. Commissioni due pantaloni (questa sì è vera sartoria!): un paio coi risvolti, un paio senza, per ogni evenienza. Ha tessuto per un paio solo? Coi risvolti. Gli spacchi: se ha meno di quarant’anni e non è l'AD, ne faccia due, ma sappia che non facendone, in un abito formale, non sbaglierà. E' più sereno adesso? Allora può forse meditare su questa frase: "Proprio per questo, di quanto detto trattenga i principi e consideri le norme come una struttura che gli uomini senza fantasia e senza conoscenza considerano una gabbia, ma i sapienti sanno essere flessibile sotto la spinta di forze applicate nel punto e nel modo giusto.". L'ha scritta per lei il Gran Maestro, io ci penso spesso. P.S. Può darsi che non sia giovane, sia un grande esperto di abbigliamento e sia molto irritato dalle mie supponenti considerazioni: non me ne voglia, aspetti la risposta del Gran Maestro e cestini questa mia. Cavallereschi saluti, Alberto Longo ----------------------------------------------------------------------------------------------------- |
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