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Nome: Giovanni Martino
Data: 05-03-2013
Cod. di rif: 4718
E-mail: gianni.martino@tiscali.it
Oggetto: Una "Summa" dello stile elegante?
Commenti:
Illustrissimo Gran Maestro,

potrei definire il mio approdo alle pagine internet del Cavalleresco Ordine un caso di “serendipità”: l’inattesa e felice scoperta di qualcosa di nuovo e di diverso da quello che si cercava.

Cercavo sui motori di ricerca alcune informazioni in materia di abbigliamento. Ho scoperto un mondo in cui indicazioni stilistiche e informazioni concrete, presenti con incredibile generosità e precisione, si inseriscono e si fondono in una coerente prospettiva di gusto e di costume.

Sino a qualche mese fa ragionavo in un’ottica di “confezione”, sia pure soffrendo i condizionamenti che questa impone, poiché consideravo il “su misura” un vezzo economicamente alla portata di pochi. Ho scoperto che solo con l’artigianato sartoriale è possibile una vera libertà di scelta, la realizzazione del perfetto connubio tra gusto personale e canoni estetici di consolidata forza espressiva. Il tutto a prezzo di uno sforzo economico che può anche essere graduale e accessibile, se considerato nella dimensione della qualità dei materiali e della classicità dello stile, quindi in un’ottica di lunga durata.

Ho scoperto, insomma, un formidabile ed eroico progetto di preservazione e trasmissione di una cultura del gusto e dell’eleganza, nelle loro diverse accezioni. Un progetto che non è astratta erudizione, ma espressione viva di una comunità di valorosi: un Ispiratore di eccezionale valentia, uno stuolo di Cavalieri animati da passione e competenza (oltre che da squisita cortesia e disponibilità, come ho potuto constatare facendo la conoscenza del prode Prefetto di Roma, Italo Borrello, decisivo nel convincermi ad intraprendere l'arduo cimento).

La scoperta di un continente nuovo e inesplorato, però, può anche confondere e disorientare.

Per addentrarsi in tale continente bisogna senz’altro prendere coscienza che si è attesi – come ogni qualvolta ci si pongano obiettivi ambiziosi - da un cammino lungo e impervio, per il quale bisogna fare ampie scorte di umiltà e pazienza. Lungo tale cammino, fortunatamente, sarà possibile attingere alle risorse preziosissime messe a disposizione dal Cavalleresco Ordine: la guida di Cavalieri straordinari per tempra e generosità; le occasioni di confronto e di conoscenza diretta; la miniera inesauribile costituita dal sito internet pazientemente costruito negli anni. E proprio su quest’ultima risorsa vorrei permettermi una riflessione (se può essermi perdonato l’entusiasmo del neofita).

Non nascondo che l’enorme quantità di informazioni presente nel sito procura un certo stordimento: Lavagna e Taccuino, con migliaia di gessi e appunti che abbracciano oltre un decennio; la posta del Gran Maestro; il Florilegio di articoli pubblicati; ecc. La possibilità di poter utilizzare modalità di ricerca per parole chiave è di grande aiuto, ma non risolutiva: a volte non è possibile ricercare ciò che ancora... non si conosce (!); a volte la parola usata per la ricerca è troppo generica; a volte si rischia di approdare al consiglio diretto, saltando premesse e gradini di conoscenza indispensabili.

La consapevolezza di dover intraprendere un’esplorazione paziente, il cui orizzonte temporale si misura con gli anni, non mi ha distolto dal domandarmi se fosse possibile un approccio alla materia più sistematico: utile innanzitutto al novizio, ma forse anche all’iniziato, che avrebbe uno strumento per affinare ulteriormente studi e riflessioni.

Mi spiego ancor meglio con un esempio certo familiare a chi mi ospita.

Il sito internet presenta una messe di informazioni eccezionale tanto per quantità quanto per varietà: dai principî ispiratori ai suggerimenti per casi concreti. Una sorta di immenso “Digesto”, insomma, in cui “norme” (in senso lato) e fattispecie astratte si confrontano sapientemente con le fattispecie concrete.

Ebbene: se è vero che il Digesto è stato per i posteri la fonte regina del diritto romano, consentendo di trasmetterne la forza vitale con tutta la sua sofisticata ricchezza, è anche vero che i giuristi classici – e infine Giustiniano - sentirono il bisogno di redigere anche opere come le “Istituzioni” del diritto, capaci di delineare istituti e criterî interpretativi.

La mia domanda-proposta (forse folle o pretenziosa; ma – ripeto – faccio appello all’indulgenza verso il mio entusiasmo da neofita) è dunque la seguente: il poderoso - l’aggettivo non è un’esagerazione retorica - Gran Maestro ha mai preso in considerazione il progetto di una grande Summa dello stile elegante nel vestire?

Un progetto capace di esporre in maniera sistematica:

- teoria del “Classico”;

- una storia dello stile nell’abbigliamento;

- rassegna e analisi dei materiali;

- rassegna e analisi dei singoli capi di abbigliamento e degli accessorî, con: profilo storico; descrizione di tipologie e modelli; tecniche di lavorazione (con sezioni specializzate a beneficio non solo di chi effettua la scelta del capo, ma anche degli artigiani che vogliano raccogliere e tramandare un’eredità tanto preziosa); indicazioni per la scelta (fattura, dettagli) e l’uso (abbinamenti, occasioni e contesti sociali, ecc.) di capi e accessorî, accompagnate da esempî significativi; indicazioni per la manutenzione;

- panoramica delle case di produzione (laddove la produzione artigianale non è possibile o difficilmente accessibile) e degli artigiani significativi;

- glossario;

- bibliografia ragionata.

Insomma: non un semplice “manuale” (con i limiti che sarebbero intrinseci a un tale lavoro, per quanto caratterizzato da profondità di ispirazione), ma un vero e proprio Opus magnum, capace innanzitutto di riorganizzare la vastità di parte dei contenuti già presenti nel sito internet. Il quale sito, oltre ad accogliere l’Opera, continuerebbe nell’insostituibile funzione di “Digesto”: ricerca e approfondimento, analisi dei casi concreti, confronto tra Cavalieri e con i visitatori.

Non si tratta, a mio avviso, di ricercare facili semplificazioni, ma di stabilire una dialettica feconda tra categorie concettuali e contenuti che vi danno forma, tra visione sistematica ed esame analitico, tra canoni universali e personalizzazione, tra teoria e prassi, tra struttura e decorazione.

Una tale Opera – proseguo imperterrito nel volo pindarico – potrebbe essere pubblicata in due versioni:

- una versione digitale disponibile on line sul sito del Cavalleresco Ordine, capace di offrire tutte le opportunità di tale formato (ricerca testuale, possibilità di frequenti aggiornamenti) e, soprattutto, di contenere un imponente apparato iconografico (tratto anche dagli appunti del Taccuino), senza i costi insostenibili legati ad un’edizione a stampa;

- una versione a stampa in edizione pregiata (magari anche in due volumi), la quale, sia pure con un apparato iconografico forzatamente ridotto, presenterebbe il vantaggio della maggiore comodità per una lettura ordinata e, soprattutto, costituirebbe un’opera di pregio che non può mancare nella biblioteca di qualsiasi uomo di gusto, anche a fronte di una spesa consistente.

La temerarietà dell’impresa non dovrebbe scoraggiare indomiti Cavalieri. Il Gran Maestro ha certo le risorse di conoscenza e la visione d’insieme per esserne l’autore; ma potrebbe anche farsi curatore di un’opera collettiva, laddove singole parti possano essere sviluppate – nel solco di un indirizzo sapientemente delineato - da Cavalieri particolarmente versati in materie specifiche.

Un tale progetto, pur potendo attingere a materiale parzialmente già elaborato, richiederebbe certamente tempi lunghi di realizzazione, per cui non darebbe risposta ad una mia personale impazienza nel percorrere il cammino intrapreso. Ma risponderebbe forse alla prospettiva di lungo termine che anima la Vostra iniziativa.

So di aver attinto oltremisura alle risorse di benevolenza dei Cavalieri giunti sino al termine di queste righe.

Per cui concludo con un saluto che esprime l’ammirazione per il patrimonio di passione e conoscenza da Voi condiviso.

Giovanni Martino

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Nome: Giovanni Martino
Data: 20-03-2013
Cod. di rif: 4721
E-mail: giani.martino@tiscali.it
Oggetto: Foggia degli abiti da cerimonia: due o tre pezzi?
Commenti:
Illustrissimo Gran Maestro,

mi sia consentita una nuova scorreria in questa Lavagna per avere risposta ad un dubbio sorto leggendo il Suo ultimo illuminante gesso sugli abiti da cerimonia.

In un passaggio del gesso, dopo aver illustrato i criterî di base per la scelta dell’abito, Ella trae una prima conclusione: “Per un matrimonio possiamo dunque dire che a livello primario la scelta sia l’abito due pezzi grigio scuro”.
La parte che mi ha colpito è: “due pezzi”. Questa Sua indicazione mi ha ricondotto alla vexata quaestio dell’alternativa due pezzi / tre pezzi per gli abiti da cerimonia; disputa che una Sua ulteriore illuminazione mi aiuterebbe a dirimere.

Le principali “scuole di pensiero” sull’argomento mi sembrano essere:

- sempre due pezzi (i fautori di tale scelta sostengono, tra le altre cose, che sia più elegante perché consente di dare maggior risalto alla luminosità della camicia);

- sempre tre pezzi (i fautori di tale scelta sottolineano, se non erro, sia il maggior rigore conferito dal gilet sia il fatto che l’abito da cerimonia moderno possa essere considerato un’attualizzazione-semplificazione del morning dress). Tale opzione mi sembrava confortata da una Sua risposta del 15-1-2006 nella Posta del Gran Maestro, in cui suggerì un tre pezzi per un matrimonio che doveva celebrarsi il 22 luglio (quindi una scelta che prescindeva dalla stagione);

- una modulazione delle due tipologie, in funzione della stagione: il due pezzi nelle estati più calde, il tre pezzi nella restante parte dell’anno (come suggerito anche da ser Lancillotto in una risposta fornita nelle Conversazioni nel maniero, datata 25-7-2005).


Il Suo ultimo gesso getta però, almeno per me, nuova luce sulla questione.

Ella fornisce, a proposito del colore degli abiti da cerimonia, non una regola (più o meno articolata), bensì un criterio di decrittazione delle occasioni formali in cui indossare l’abito.

Applicando tale criterio - nell’ambito del livello primario di scelta di un abito - non solo al colore, ma anche alla foggia, possiamo dunque immaginare un passaggio graduale dal tre pezzi al due pezzi in funzione del carattere più o meno serio/festoso della cerimonia? In tal modo lo spettro di combinazioni potrebbe andare dal tre pezzi grigio scuro al due pezzi blu.
E ancora chiedo: l’elemento stagionale può concorrere a definire la tavolozza cui attinge lo spettro di combinazioni (più facile fare a meno del gilet nelle occasioni estive meno rigorose)?

Scusandomi se ho ignorato o travisato alcuni concetti già espressi in materia, ringrazio anticipatamente Lei – ed ogni Cavaliere che ritenesse queste righe degne di attenzione - per ogni ulteriore chiarimento.

Cordialmente

Giovanni Martino

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Nome: Giovanni Martino
Data: 05-04-2013
Cod. di rif: 4730
E-mail: gianni.martino@tiscali.it
Oggetto: Principî del Classico e “rivoluzione culturale”
Commenti:
Illustrissimo Gran Maestro,

la profondità e l’ampiezza delle Sue risposte si può riconoscere anche dalla capacità di stimolare la riflessione e suscitare nuovi interrogativi, come quelli affiorati alla mia mente ancora in relazione alla foggia degli abiti da cerimonia.

Debbo però accantonare momentaneamente tali interrogativi, perché dal Suo ultimo gesso, vergato in risposta al signor Gigante, mi sembra scaturisca lo stimolo ad un confronto sul più vasto tema dei principî fondanti del Classico.
Tale tema mi sembra degno della massima attenzione, per cui mi permetto di offrire alcuni brevi, e spero non divaganti, spunti di riflessione.

Vorrei prender le mosse da un concetto fondamentale da Lei espresso, vale a dire che “all’origine della spinta più potente ed epica del Classico troviamo un’aspirazione etica”.

Tale concetto è suffragato anche dalla successiva involuzione delle nostre società: il declino del gusto estetico, anche nel vestire, ha coinciso con il degrado etico, che appare evidente anche a chi non voglia indossare le lenti del moralismo.
L’evidenza di questo declino-degrado parallelo la troviamo, a mio parere, nella eterogenesi dei fini della “rivoluzione culturale” (quella dei “Sixties” negli USA, del “Sessantotto” in Europa) che ha abbattuto la dimensione del Classico: i risultati raggiunti si sono rivelati opposti a quelli desiderati e proclamati.

Tre brevi esempi.

Nell’epoca del Classico, il rispetto di alcuni canoni del vestire attraversava tutte le classi sociali, come mirabilmente ricostruito nella teoria del Vestito Buono. Il modello generale di riferimento, si sarebbe detto una volta, era “interclassista”, accessibile a tutti.
Ebbene: quella stessa rivoluzione culturale che proclamava di voler abbattere disparità e classi sociali, e vedeva anche nell’abbigliamento – nella cravatta “cappio borghese” – un simbolo di oppressione classista, ha finito col produrre una società in cui l’abbigliamento è tornato ad avere connotati di classe e di censo, in cui certe fogge del vestire sono ritenute consone solo al “magnate”, all’ “imprenditore”, al “dirigente”. Chi non appartiene a tali categorie rischia di essere considerato un eccentrico, o uno che “si dà le arie”, per il solo fatto di indossare una cravatta.

Ancora: il modello di riferimento del Classico era per certi versi obbligante, dal punto di vista dell’approvazione/riprovazione sociale. E ciò aveva in sé i rischi del conformismo e dell’ipocrisia. Ma si trattava di eccezioni. Quell’obbligo, come da Voi ricordato, non era infatti un’imposizione arbitraria e opprimente, bensì “un’aspirazione etica” (ed estetica), che esprimeva l’orizzonte di una crescita comune ed era diffusamente accettato, perché riconosciuto capace di favorire quella crescita.
Ebbene: quella stessa rivoluzione culturale che proclamava di voler abbattere il conformismo, di voler restituire agli individui una piena libertà, ha finito col produrre un conformismo di segno opposto, un “conformismo dell’anticonformismo”, basato sull’esaltazione del brutto e dello sciatto (il jeans venduto a caro prezzo già strappato!), così come sul rifiuto di ogni regola (il che coincide col rifiuto di aprirsi all’altro da sé). Citando un Suo gesso nel dibattito sul Vestito Buono, “l’individuo non è mai tanto massificato che nel momento in cui tenta una via di originalità senza ideali”. Il nuovo conformismo - esso sì - è arbitrario (non risponde a nessun criterio morale o razionale) e opprimente (i dissidenti possono essere sanzionati con il sarcasmo e lo sberleffo).
Esemplari, a mio avviso, le considerazioni di Pasolini - intellettuale ideologizzato, ma non conformista - nel suo celebre articolo “Contro i capelli lunghi” (http://www.unipa.it/~michele.cometa/pasolini_capelli.pdf).

Infine: lo stile Classico esprime un’aspirazione al miglioramento a partire da canoni precisi e storicamente consolidati, potremmo dire “naturali”. Un’aspirazione al miglioramento che muove quindi dall’accettazione di sé, della propria identità e della realtà che ci circonda.
Ebbene: quella stessa rivoluzione culturale che proclamava di voler rimuovere ogni discriminazione contro l’individuo ha prodotto una società che - quando non insegue la bruttezza - insegue modelli di abbellimento dettati dal rifiuto/disprezzo di sé, come in certi modi di vestire che costituiscono veri e proprî mascheramenti (o come nella chirurgia plastica). Un rifiuto che può essere addirittura più profondo, come l’emergente rifiuto della propria identità sessuale, alla ricerca di improbabili “identità di genere”: lo stile di abbigliamento corrispondente mi sembra venga definito “metrosexual”, o qualcosa del genere.

Insomma, l’importanza dei principî fondanti del vivere e del vestire può essere riscoperta – forse - anche guardando alle contraddizioni profonde emerse nella cultura che quei principî contestava.

Cordialmente

Giovanni Martino

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Nome: Giovanni Martino
Data: 01-02-2014
Cod. di rif: 4826
E-mail: gianni.martino@tiscali.it
Oggetto: Cura calzature
Commenti:
A proposito di cura delle calzature, tanto le stanze di questo Castello quanto il fascicolo sul Guardaroba della Biblioteca Cavalleresca offrono una miniera di informazioni preziose. Ma poiché ogni percorso di conoscenza suscita curiosità, nuove domande, desiderio di approfondimento, conservo alcuni dubbi che mi inducono a chiedere ai cultori della materia, e soprattutto all’inappellabile Gran Maestro, di ritornare su questo argomento, sperando di fare cosa utile anche ad altri visitatori del Castello.

Le questioni che vorrei porre sono le seguenti:

1. In merito alla lustratura con lucido, il quadro delineato nelle fonti che ho menzionato è più che esaustivo. Quanto ai prodotti da utilizzare, mi sembra emerga come indicazione prevalente quella della Pâte de Luxe Medaille d'Or 1925, della Avel-Saphir. Un dubbio mi rimane in ordine al colore del lucido: la scelta del colore neutro si può considerare sempre valida, se non c’è il preciso intento di donare alla scarpa sfumature particolari? Oppure gli effetti migliori si ottengono con un lucido pigmentato?

2. Le mie idee restano più confuse, invece, in merito al trattamento con crema. Io ho effettuato questa ricostruzione:
a) Si ha una vera e propria “lustratura/lucidatura con crema”, sostitutiva di quella con lucido, quando viene utilizzato un prodotto come Crème Surfine, che potremmo definire una “crema lucidante” e sul sito internet della Avel viene descritto come “indicato per il cirage”, da utilizzare “in alternanza al lucido Pâte de Luxe”. Le modalità di applicazione dovrebbero essere le stesse del lucido (anche con la variante della pezzuola intinta in acqua?). Sul colore, gli stessi dubbi espressi per il lucido…
b) Si ha invece un trattamento con crema prettamente nutritivo, e preparatorio alla lustratura con lucido, quando viene utilizzato un prodotto “ricondizionante” e non pigmentato come Rénovateur (sempre Saphir).
È una ricostruzione corretta o c’è qualche fraintendimento? Esistono altri prodotti più appropriati della Saphir o di altre marche (in una sua vecchia risposta a una lettera, il Gran Maestro evidenziò – per le creme – il primato delle marche inglesi, Meltonian e Kiwi)?

3. Mi chiedo anche: è utile sottoporre le scarpe nuove con tomaia in pelle liscia a trattamenti preparatori/protettivi?

4. Infine, riguardo alle scarpe scamosciate: è corretto applicare uno spray impermeabilizzante senza silicone (Church’s, ad esempio, lo consiglia)? Anche a quelle appena acquistate? In caso affermativo, qual è il prodotto da preferire?

Confido nella cortesia di quanti vorranno soddisfare queste curiosità o correggere gli errori (anche terminologici).

Cavallereschi saluti

Giovanni Martino

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Nome: Giovanni Martino
Data: 27-11-2014
Cod. di rif: 4904
E-mail: gianni.martino@tiscali.it
Oggetto: La moda maschile: appropriatezza, originalità, bellezza
Commenti:
Illustri Cavalieri, egregi Visitatori,

vorrei raccogliere la sollecitazione del dottissimo Rettore di questa Porta a commentare le interessanti considerazioni svolte dall’architetto austriaco Adolf Loos, a cavallo tra XIX e XX secolo, nel suo saggio “La moda Maschile”.

Gli estratti del saggio del Loos capaci di stimolare maggiormente la riflessione sono, a mio avviso, quelli proposti con i gessi n. 4896 e n. 4897.

Il Loos si interroga su quale sia il criterio per poter dire di “essere ben vestiti” e dà una risposta che evidenzia la sua piena adesione alla ‘filosofia’ degli Inglesi (allora all’apice della loro potenza politica e della loro influenza sullo stile maschile): “essere ben vestiti significa essere vestiti in modo corretto”. Il criterio del vestir bene sarebbe insomma racchiuso in quello dell’appropriatezza: essere “proper”.


1) Molto interessante, in primo luogo, è lo sforzo di Loos di individuare i caratteri di questa appropriatezza.

a) L’architetto viennese la lega anzitutto a un elemento atemporale: la moderazione (“non si deve dare nell’occhio”).
Questo elemento è un cardine dell’eleganza maschile sin dai tempi di Beau Brummel e conserva evidentemente la sua attualità, almeno per chi si senta ancora legato all’estetica classica. Anche l’evoluzione nel tempo delle linee e delle forme, sottolinea Loos, segue il “sistema della massima discrezione” (e non la frenesia delle mode).

b) Il Loos cerca però di definire la correttezza – o appropriatezza - in modo ancora più preciso, individuando un ulteriore elemento, contestualizzato nello spazio e nel tempo: i dettami della “buona società” di Londra. L’appropriatezza diviene così un criterio dinamico, tant’è che può essere considerata sinonimo di ‘modernità’: “un capo di abbigliamento è moderno se, quando lo indossiamo in una determinata occasione trovandoci nel centro della civiltà e nella migliore società [quella di Londra], si dà il meno possibile nell'occhio”.

Questo elemento – il legame con la buona società di Londra – nella nostra epoca si è evidentemente perso. Né è stato sostituito da altro riferimento dinamico, se è vero che si può parlare – com’è stato fatto tra queste mura – di “morte del classico”. Di conseguenza è andata anche smarrita l’equazione tra correttezza e ‘modernità’: oggi viene considerato ‘moderno’ ciò che si pone come antitesi al classico, come rifiuto delle formalità.

Resta quindi, al giorno d’oggi, una difficoltà a individuare i parametri dell’appropriatezza: bisogna ritenere che, con la “morte” (intesa come perdita di forza innovativa) del classico, l’appropriatezza si sia cristallizzata?
Possiamo ricondurla, in linea generale, alla rispondenza tra “tono” dell’abbigliamento e “contesto”?
Definirne la fisionomia è un compito affidato esclusivamente ai cultori e agli studiosi del classico?


2) C’è un altro aspetto, nell’analisi di Loos, che probabilmente non può considerarsi pienamente attuale, eppure è capace di suscitare interessanti riflessioni: mi riferisco alla quasi totale identificazione tra vestir bene e appropriatezza. La correttezza, in effetti, non è considerata dal Loos solo l’elemento principale del vestir bene, ma, in sostanza, quello esclusivo (“Ci si è voluti avvicinare alla moda servendosi di aggettivi come bello, chic, elegante, disinvolto e audace. Ma non è questo il punto”).

L’originalità, ad esempio, viene considerata un vezzo da “gagà”, persone “a cui il vestito serve anzitutto per distinguersi”.

Persino il concetto di “bello” viene quasi integralmente respinto, se applicato alla moda maschile: “La Venere de’ Medici, il Pantheon, un quadro di Botticelli, una canzone di Burns, questo sì che è bello! Ma i pantaloni!? O il fatto che la giacca abbia tre oppure quattro bottoni? Che il gilè abbia il taglio alto oppure basso!? Non so, ma provo sempre un grande sgomento a sentir parlare di bellezza a proposito di queste cose”.
(Da non trascurare il fatto che queste considerazioni vengano da un celebre architetto, persona che quindi dovrebbe essere particolarmente attenta alla dimensione estetica. Sarebbe interessante conoscere, al riguardo, l’opinione di Cavalieri e Visitatori che abbiano conoscenza approfondita della materia e del pensiero di Loos).

A me sembra, come accennavo, che la quasi totale identificazione tra vestir bene e appropriatezza non conservi piena attualità, anche perché – se non mi inganno - era andata perdendosi già nell’epoca classica, che raggiunse il suo apogeo molti anni dopo il saggio dell’architetto austriaco.

E’ vero, infatti, che, l’abbigliamento non è il terreno adatto per l’espressione della creatività artistica, per la ricerca del bello con una connotazione marcatamente soggettiva. L’abito ha una funzione sociale, oltre che individuale, e non può ignorare le convenzioni e le codificazioni del suo specifico linguaggio. Il desiderio di originalità e bellezza, insomma, non può essere il grimaldello per scardinare l’appropriatezza.

Bisogna anche aggiungere, però, che lo spazio per l’originalità si può esercitare pur non contraddicendo i canoni della formalità e dell’appropriatezza, ma effettuando scelte personali e attente all’interno del vasto spettro di possibilità che lo stile classico offre. Un’originalità che sia manifestata nel dettaglio è certo più difficile che non un’originalità esibita e ostentata; ma è in ogni caso possibile (e, probabilmente, più raffinata).
Inoltre, l’evoluzione dello stile classico è stata dettata anche da una ricerca estetica, benché non esclusivamente individuale, ma frutto dei contributi di grandi sarti, di grandi uomini di gusto, delle scelte operate dai contesti sociali che decretavano l’affermazione o il declino di alcune scelte stilistiche.

Insomma, già al culmine dell’epoca classica il criterio dell’appropriatezza ha trovato composizione dialettica con altri criterî come originalità e bellezza; questa sintesi, forse, rappresenta proprio il passaggio dal semplice “vestir bene” all’eleganza.
Non bisogna del resto dimenticare l’influenza esercitata sui canoni classici anche dallo stile italiano (con la sua peculiare tensione individualista): Loos deprecava la smania per il bello dei Tedeschi, ma non aveva previsto l’influsso degli Italiani…

Anche in questo caso - come per la definizione dell’appropriatezza - si pone una questione.
Se è morto il classico, è venuta anche meno la capacità della creatività estetica di manifestarsi innovando i canoni del vestire maschile.
Possiamo allora ritenere che originalità e gusto personale per il bello possano esercitarsi solo come scelta all’interno di un ventaglio – sia pure vastissimo – di possibilità precostituite?
Possiamo altresì ritenere che sia sempre compito di cultori e studiosi del classico esplorare questo ventaglio di possibilità, e anzi difenderne l’ampiezza (considerato che la ‘modernità’ si manifesta spesso come riduzione delle possibilità espressive, sacrificate sull’altare della praticità e dell’economicità produttiva)?

Forse le mie domande – al netto delle imprecisioni - trovano già risposta in analisi svolte tra le mura di questo Castello o in incontri del ciclo di Dress Code organizzato dall’Ordine. Confido in ogni caso che possa essere considerato utile riproporle in questa sede.

Cavallerescamente

Giovanni Martino

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