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Nome: Matteo Cantile Data: 14-05-2011 Cod. di rif: 4493 E-mail: matteocantile@yahoo.co.uk Oggetto: A. Pesce: un altro pezzo di storia che se ne va Commenti: Gagliardi Cavalieri, un altro pilastro del buon gusto italiano è caduto. Passeggiando in via San Luca, a Genova, questa mattina ho notato un cartello esposto sulle vetrine dello storico negozio di abbigliamento, accessori e cappelli "A. Pesce": "Liquidazione totale per cessata attività", questo recitiva il piccolo poster. Il negozio, recensito dal Gran Maestro nel "Vestirsi Uomo" pubblicatio da Monsieur nella puntata dedicata ai cappelli, è un'antica bottega dei vicoli genovesi: nota per essere l'importatore dei cappelli "Lock" è stata per decenni un vero presidio del buon gusto virile. Sono entrato e alla gentile signora che, assieme al marito (credo...) gestisce il negozio, ho chiesto spiegazioni rispetto alla decisione di chiudere: "La Regione ha ceduto il nostro fondo senza neppure avvisarci, abbiamo chiesto molte volte di acquistarlo, richieste sempre cadute nel vuoto. Stia sicuro, al nostro posto sorgerà presto l'ennesimo store made in China. Nel centro storico stanno comprando tutto loro". Sono uscito attonito. L'ennesima cattiva notizia. Cosa mai potremo fare, noi cavalieri, per evitare che fuori dalle mura del castello crollino, uno dietro l'altro, tutti i bastioni del mondo classico? Arriverà il giorno in cui su queste lavagne parleremo solo al passato? Perdonate la ventata di pessimismo. Cavallerescamente. Matteo Cantile ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Matteo Cantile Data: 19-05-2011 Cod. di rif: 4497 E-mail: matteocantile@yahoo.co.uk Oggetto: Al Gran Maestro: sogno classico ed economia moderna Commenti: Chiarissimo Gran Maestro, l'incontro sui Negozi d'Epoca a cui voi avete fatto riferimento è stato il primo evento del Cavalleresco Ordine a cui abbia partecipato "fisicamente". Fu proprio l'impressione di essere al cospetto di un valoroso manipolo di guardiani a spingermi ad approfondire l'attività dell'Ordine e, dopo aver compiuto i giusti passi, a diventarne socio. I principi economici già compresi in quella serata (che voi, però, riusciste a stemperare raccontando le storie del signor Colombo, di Tony Rossi, della pasticceria Marescotti e coinvolgendomi in una cena nella quale fu possibile, fatto per me nuovo, gustare l'amato Avana a tavola, ricordandoci che non tutto è perduto) sono irreversibili e hanno travolto il mondo classico come uno tsunami. Resta il fatto che quando è possibile, anche solo con l'esempio, la ricerca, la nostra attività di committenti consapevoli, difendere un presidio classico, si ha l'impressione di avere contribuito a ritardare quella deriva assoluta a cui il mondo sta andando consapevolmente incontro. Quando, invece, assistiamo impotenti al tramonto di un monumento e al sorgere dell'ennesimo niente travestito da qualcosa, si ha l'impressione d'essere stati sconfitti anche noi. Non è compito del Cavalleresco Ordine ne, tantomeno, dei suoi singoli soci, ribaltare una tendenza inarrestabile: noi possiamo solo perpetuare uno spirito rispettandolo con i nostri comportamenti privati e, laddove non sia più possibile riprodurne le sfumature, lo studiamo e lo ricordiamo. In memoria di tutti coloro che si arrendono, schiacciati da quei principi di economia che non fa prigionieri e che la vostra penna ha cosi lucidamente illustrati, dimenticati da Governi che neppure comprendono a cosa stanno rinunciando, propongo un brindisi con il nostro amato Billecarte. Fino a quando bere Champagne in un luogo chiuso non sia vietato. Cavallerescamente. Matteo Cantile ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Matteo Cantile Data: 21-07-2011 Cod. di rif: 4511 E-mail: matteocantile@yahoo.co.uk Oggetto: Senza parole... Commenti: Caro Dottor Schifani! Cresce lo stupore e l'indignazione per la richiesta assurda di presenziare all'imminente Evento -nel palazzo senatorio- in giacca e cravatta(vedasi nel prosieguo). E' una imposizione che ogni persona intelligente -nel 2011- respinge in toto. Confidando nella Sua accortezza,Le chiedo di rimuovere tale offensiva richiesta e fare in modo che non sia mai più reiterata. Resto in attesa di una risposta. Bene augurando. Firmato Marco Belelli, alias Mago Otelma Ora, indomabili Cavalieri, è chiaro a tutti noi che prescrivere un dress code alla presenza del Presidente della Repubblica è imposizione che, ogni uomo intelligente, respinge in toto. Gli stessi dotatissimi contemporanei accettano invece con entusiasmo il titolo di Mago che il dott. Belelli intende attribuirsi. Cavallerescamente incravattato, Matteo Cantile ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Matteo Cantile Data: 18-06-2012 Cod. di rif: 4610 E-mail: matteocantile@yahoo.co.uk Oggetto: Il Principe Carlo sulla sartoria britannica Commenti: Sua Altezza Reale Principe Carlo Windsor Mountbatten è considerato, in queste stanze, "l'uomo più correttamente vestito del mondo". Un fulgido esempio di stile classico e senza tempo. Al castello, alcune delle nostre migliori penne si sono esercitate nello speculare sul percorso che il Principe ha seguito per arrivare a questo grado di eccellenza e spesso ci siamo domandati quanta ricerca e passione ci fosse dietro queste scelte. Nella lettera che ricopio in calce, spedita al mensile GQ, che nel marzo di quest'anno ha eletto il Principe "Uomo meglio vestito del mondo", ci sono riflessioni che non mancheranno di illuminarci. Il testo originale è ricavato da questo link: http://www.princeofwales.gov.uk/speechesandarticles/an_article_by_hrh_the_prince_of_wales_on_the_launch_of_the_b_2013339184.html Buona, cavalleresca, lettura. Matteo Cantile Lerici, 18 giugno 2012 An article by HRH The Prince of Wales on the launch of the British Fashion Council's Men's Collection in London, GQ Magazine 11th June 2012 I must say, it was a complete surprise to learn recently that I had been voted one of GQ’s Best Dressed Men [in March 2012]. It wasn’t so long ago I was voted by another panel of judges the Worst Dressed. In the past I have been named both in successive years. In fact, in the early Seventies, I swung from one extreme to another so often that when I turned up for a dinner at the Master Tailors’ Benevolent Association in London’s Grosvenor Square in 1971 I was confronted by my poor tailor, whose despair was only too evident when he responded to press questions about my being chosen as the worst-dressed man for that year. In an anguished voice, he said, “But you don’t know his measurements!” It was probably this experience that made me decide I simply had to go my own way and stick to what I felt suited me. As that happens to involve what many once considered to be old-fashioned double-breasted suits, I can only expect to be considered unfashionable; although one commentator recently called me “beyond fashion”, which added a whole new dimension to my confusion. I am still not sure if she meant it as a compliment... The recognition of GQ was, therefore, encouraging to say the least. I took it very much as a vote for what can perhaps best be described as the classic and timeless look of British style. If what I am told by the tailors and shirt- and shoe-makers I come into contact with is true, then this look is very much the envy of the world. They tell me their order books from overseas clients have never been fuller, and I am not surprised by this. I have long been an admirer of British tailoring and the associated trades: shirt-makers, for instance, like Turnbull & Asser, whose long established factory in Gloucestershire is but one example of a small workforce with generations of experience who cut with precision the 30 or so pieces that go to make up every one of their shirts. I am told there are 20 stitches in every inch of such a garment. I am also reassured that its mother-of-pearl buttons are farmed from renewable sources. No wonder, then, that even though the industry is dominated by mass-production techniques and synthetic fabrics, some of the top international fashion houses turn to British companies that display this attention to detail. It is worth considering why. For me, one reason is that quite apart from it being wonderful to wear, such crafts-men and -women offer products with excellent durability. It is a somewhat sobering thought, I suppose, that I have probably spent the greater part of my life in suits. But because I do, in my view such items of clothing have to do two things. Given the demands of my life, it is a great help if a suit looks as good at the end of a day as it did at the start; and it also has to withstand the heavy battering it can sometimes receive. So the challenge to tailors, shirt- and shoe-makers is a tough one. Clothes have to combine style with sustainability and I find British-made tailoring more than meets that challenge – much to the amusement of my staff, who are sometimes surprised to find that what I am wearing turns out to be as old as or even older than they are. Of course, trying to fit a disintegrating body into an old suit or uniform is a somewhat nightmarish experience. But the sheer fact that such suits were clearly made to last is a critical element in the celebration about to be launched by the British Fashion Council with the London Collections: Men shows, later this month. I am very much looking forward to meeting some of the many designers and manufacturers involved when I host a reception for the event at St James’s Palace – people, for instance, like John Hitchcock, the managing director of Savile Row tailors Anderson & Sheppard. He is a typical member of his profession: he started straight from school on the shop floor at the age of 16, learning his trade from, and guided by, the vast experience of his older colleagues. As a result, he knows from first-hand experience why British tailoring is second-to-none in the world. Many other parts of the world have lost those skills. Hitchcock travels regularly to America, for example, where the children of many of those great but humble New York tailors of the Fifties aspired to the professions, not to trade. So the skills were not so successfully handed on. It could have happened in the UK, especially during the Eighties when nobody was interested in becoming a tailor and bespoke tailoring itself was falling out of fashion. Fortunately, companies like Hitchcock’s kept the candle burning. They invested their own money, creating highly unfashionable apprenticeship schemes. Comp-etition to join them is now stiff. Anderson & Sheppard currently employs seven people between the ages of 19 and 28 who learn their trade over a long, six-year period in its specially created workshop. It is an expensive investment. The entire Savile Row Bespoke Association has also teamed up with Newham College in London to create a tailoring course. More than 200 students have graduated so far and the good news is that they have more students on the present course than they have ever had before. Students leave with a first-rate qualification that enables them to apply for apprenticeships with the association’s members, many of whom are on Savile Row itself. For me, this proves the point I have been trying to remind people of for years: that craft skills matter and that, despite the wonders of modern technology, there is a huge and growing demand – particularly overseas and in Southeast Asia – for the hallmark products such skills can produce. Such schemes guarantee that the highest standards of British craftsmanship are in safe hands and are being passed on to the next generation, whereas elsewhere in the world they have died out. And there are other benefits, too... With the acquisition of such skills comes a real enthusiasm for the natural materials with which these trades work, chief among them being wool – a miracle material the priceless virtues of which I have been trying to extol through challenging the general belief that synthetic alternatives are somehow cleaner and cheaper. This assumption has created a parlous economic situation for many of the world’s hardest-working farmers who find it can cost far more to shear a sheep than they make from the wool, despite the wonders that wool can offer. Its production is certainly kinder to the earth. It takes a lot less fossil fuel to grow and there is no need for the sorts of noxious chemicals that manufacturing synthetic alternatives require – substances that, of course, have to be disposed of as well. Even so, flocks are growing smaller, or, even worse, farmers are giving up sheep-farming altogether, with devastating consequences for those local economies that depend upon hill-farming communities. Which is why, at the start of 2010, I launched my Campaign For Wool to highlight just what an extraordinary natural material wool is. Not only is wool flame-retardant to 600°C – thus meeting stringent clothing safety standards without the need for any additional chemical treatments – its structure also enables it to absorb and release perspiration naturally. This is very useful in clothing, just as it is in buildings. In both cases, wool absorbs moisture without itself feeling wet and is also a brilliant insulator. For tailors, though, it is wool’s remarkable natural “drape” that makes it such a wonderful material to work with. Wool is made up of very fine fibres that have a natural elasticity and resilience that is very hard to replicate in a synthetic material. So much so that I have often wondered why so many scientists have gone to such expensive lengths to create clever, new, artificial materials, when all along nature has done it for us far more efficiently, and all without harming the planet. I was tremendously encouraged that my Campaign For Wool gained support so quickly from all those involved in the industry, from the wool-growers right through to the top-end designers and manufacturers. The world’s major trading organisations also joined the call for manufacturers to look again at what wool can do and it gave me the greatest satisfaction when the campaign started to make a real impact on consumers in the High Street, in one instance quite literally, when Savile Row itself was memorably turned into a lush meadow in 2010, complete with grazing sheep and sheep-dog displays. The Campaign For Wool was not just focused on the work of top-ranking British tailors. I have seen for myself on my visits to Australia and New Zealand the remarkable uses to which merino wool’s uniquely soft, fine drape is being put, not just in fashionwear, but in the manufacture of astonishingly resilient, lightweight outdoor and athletics clothing. And remember, nature does not produce noxious substances that the world has no use for. I recently paid a visit to the woollen mills in Bradford where I was shown what the by-product of the scouring process can do. Scouring removes grease from the wool and this grease has many applications, everything from an ingredient of biofuels to a staple in fish food, or even an natural fertiliser. Some French speakers use a rather striking phrase when talking about shoes. “Ça fait un bon pied.” It makes a good foot, they say. In the end, if you were to ask me what makes a good shirt or a good suit, not only does it make as good a figure as possible, it also helps you to “feel right”. How often have we worn a new shirt or jacket that doesn’t quite feel right and so, all day long, we don’t quite feel right either. The high standard of British craftsmanship, however, can perhaps help you to “feel right” most of the time, sometimes in the most difficult or trying of circumstances. That is why I hope that the forthcoming British Fashion Council’s event will help bolster the confidence of Britain’s clothes designers and manufacturers, much as their craftsmanship has for so many years bolstered ours. They certainly deserve our support. ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Nome: Matteo Cantile Data: 22-04-2015 Cod. di rif: 4928 E-mail: matteocantile@gmail.com Oggetto: Scholte e il Duca Commenti: Sperando di fare cosa gradita ho tradotto in lingua italiana gli splendidi articoli condivisi dal Prof. Pugliatti. Cavallerescamente. Matteo Cantile Nell'aprile o nel maggio del 1879 nella mia scuola scoppiò il morbillo e così, essendo all'ultimo anno e dovendo poi iniziare il mio apprendistato nel commercio, ho persuaso mio padre di farmi iniziare subito, poiché la scuola sarebbe stata comunque chiusa finché l'epidemia non fosse passata. Fui messo assieme a uno dei dipendenti di mio padre che confezionava solo abiti da sera e giacche da frac di un nero superfino, tutto fatto a mano, cucito sul bordo con punti nascosti. Per rivestire i baveri ci voleva un giorno di lavoro e doveva essere fatto così finemente che le cuciture non dovevano vedersi neanche nella parte posteriore. Siccome il mio tutore nell'apprendistato era un artigiano della vera vecchia scuola, era abituato a sonnecchiare per gran parte del pomeriggio e ricominciava a lavorare verso le 5. Rapidamente mi stancai della monotonia di quel lavoro e mi feci trasferire da un altro artigiano che cuciva ogni sorta di indumento e l'accordo era che realizzassi un tight (il primo della mia vita) per me stesso: quando ci fossi riuscito sarei potuto andare a Parigi per perfezionare il taglio e la lingua. In quei giorni prendevo lezioni di musica dalle 8 alle 9 del mattino, dopodiché andavo dal maestro sarto fino alle 5 del pomeriggio senza interruzioni, solo qualche sandwich a metà giornata, e poi rincasavo per la cena. Dopo mangiato iniziavo le lezioni private di francese e inglese fino alle 8, poi mi esercitavo con la musica e facevo i compiti: non avevo molto tempo per divertirmi. Avevo 15 anni e quando arrivai a 17, avendo imparato a cucire da solo il mio tight, fui mandato a Parigi nell'agosto del 1881 per imparare il taglio e il francese. Trovai posto grazie a un mercante che era in affari con mio padre: dovevo lavorare dalle 8 del mattino alle 8 di sera, il sabato un po' più tardi poiché dovevo aiutare a fare le consegne, la domenica fino alle 2 del pomeriggio. Il nome della ditta era Joffre, all'angolo tra Rue Faubourg e Boulevard des Italiens. Non avevano molto lavoro e per tenermi occupato mi dettero un pezzo di vetro con cui dovevo raschiare il bancone per il taglio. Non mi hanno insegnato molto: spazzare il locale, raschiare il bancone e portare pacchi. Quello che avevo veramente imparato era muovermi per Parigi. Comunque, ben presto mi stancai e, attraverso un altro mercante- un commerciante di bottoni, questa volta, il signor Anglade – mio padre riuscì a mandarmi dal professor de Coupe, in una vera scuola di taglio. Quando l'ho finita mi trovarono posto come assistente cutter dal signor Versini, al 3 in Rue de La Paix, al tempo una delle migliori case di Parigi, sebbene fosse piccola: rimasi li 18 mesi, poi mio padre insistette perché tornassi a Londra. Era il 1882, andai a lavorare da Messrs Whitakers grazie a un amico, il signor Mead della Hove Mead: inizialmente ero un trimmer, poi mi lasciarono tagliare la stoffa dei pantaloni per il capo tagliatore, Mr. Donaldson, che quando paragonò il mio lavoro al suo disse che era certo che avessi già tagliato in precedenza. Mi dettero un pacco di 50 cartellini di diversi pantaloni da tagliare e dopo qualche mese fui promosso a quell'incarico e ricevetti un'offerta da Johns & Pegg, che proponeva un aumento di paga da 30 scellini a 3 sterline e 10 che sarebbero diventate 4 a settimana se, dopo un mese, fossi stato ancora da loro. 12 anni dopo arrivai a guadagnare 10 sterline a settimana attraverso continui aumenti ma, visto che promettevano sempre di farmi entrare nella società e non lo facevano mai, decisi di mettermi in proprio. LA TIRANNIA DEL MIO SARTO (S.A.R. IL DUCA DI WINDSOR) Il mio guardaroba da Principe durante gli anni venti del novecento era modesto in confronto a quello, per esempio, di Giorgio IV che, alla sua morte, fu valutato 15.000 sterline. Nonostante questo le mie spese erano state molto più alte di quelle di questo ben vestito gentiluomo della Reggenza che poteva, al cambio della sua epoca, vestirsi con meno di 50 sterline l'anno. Dal 1919 fino al 1959 – lo spazio di 40 anni – il mio principale sarto a Londra fu Scholte che, ahimé, non esiste più. Il signor Scholte è morto subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale la sua sartoria fu severamente bombardata e suo figlio, che ereditò l'attività, la lasciò alla scadenza del contratto di affitto. Fu uno dei miei scudieri che mi introdusse in questa augusta ditta di Savile Row. Scholte, originario dell'Olanda, era un sarto della vecchia scuola che gestiva la sartoria già ai tempi di mio nonno. Una volta mi disse che, da giovane, fu costretto a passare dieci anni di duro apprendistato prima di essere autorizzato a tagliare un abito per un cliente. Aveva idee molto precise su come un gentiluomo dovesse e non dovesse vestire. Nella tradizione di Brummell disapprovava ogni forma di esagerazione nello stile di una giacca. Si rifiutava risolutamente di servire gli attori di teatro e, più avanti, quelli del cinema facendo eccezione solo per Sir Charles Hawthrey e Sir Allan Aynesworth, che considerava sufficientemente sobri nei loro gusti per indossare i suoi abiti, ma solo fuori scena. Ero presente nel suo negozio quando rifiutò di cucire un abito per Fruity Metcalfe, mortificando quel gentiluomo galante mentre io ero segretamente divertito. Da grande artista e artigiano qual era, Scholte aveva standard molto rigidi sull'equilibrio e le proporzioni tra le spalle e la vita, nel taglio di una giacca maschile. Fruity, che era un tipo sempre pronto a qualche esperimento, peccò domandando al sarto spalle più larghe e una vita più stretta. Così, per un certo periodo, fu escluso dal sacro distretto di Scholte. Queste precise proporzioni erano la formula segreta di Scholte. I suoi concorrenti aspiravano vanamente ad avere i suoi abiti di nascosto, così da poterli poi analizzare e misurare per scoprirne i segreti. Nessuno riuscì mai: Scholte conosceva i suoi clienti e restò sempre in guardia. Spesso ricordava di quel sabato in cui un vistoso gentiluomo con una macchina sportiva entrò nel suo negozio e iniziò a ordinare un po' di abiti. Ma Scholte capì l'inganno e, cortesemente, si rifiutò. Il cliente era, dopo si scoprì, un sarto all'ingrosso di Seven Sisters road. Un'altra volta si rifiutò di servire un ambasciatore americano in Gran Bretagna. L'ambasciatore aveva bisogno, con urgenza, di un tight per un Garden Party. Ma quando andò dal sarto per la prova commise l'errore di portare con sé sua moglie. L'ambasciatrice iniziò a trovare difetti nel taglio e nella linea della giacca e suggerì delle migliorie. Scholte, senza dire nulla, tolse la giacca dall'ambasciatore, la gettò a terra e si rifiutò di proseguire. L'ambasciatore tornò il giorno dopo, senza la moglie e, poiché aveva veramente urgenza di quell'abito, implorò il sarto di tornare sulla sua drastica decisione. Alla fine Scholte si lasciò convincere ma, in un'esplosione di schiettezza olandese per niente diplomatica aggiunse: “Ma non porti mai più qui quella maledetta donna”! Che Scholte potesse fare, all'occorrenza, abiti in tutta fretta lo sperimentai su me stesso un'estate quando andai ad Ascot indossando un tight grigio scuro con pantaloni in pendant. Sfortunatamente avevo dimenticato che la corte era in lutto per la scomparsa di un parente alla lontana. Arrivando all'ippodromo mi presi così una ramanzina da mio padre che mi ricordò che, in una simile circostanza, avrei dovuto indossare un tight nero. Ma, costernato, mi resi conto che per qualche ragione io non ne avevo neanche uno. Così chiamai Scholte direttamente dall'ippodromo chiedendogli il favore di cucirmi una giacca nera entro il giorno successivo ma che non avrei potuto essere a Londra per la prova prima delle 6 di sera. Arrivai in auto direttamente al suo negozio, scelsi il materiale, vidi nascere la giacca che poi Scholte diede a uno dei suoi aiutanti che era rimasto con lui nonostante l'orario di chiusura. Restò in piedi metà della notte per finire la giacca. Al mattino la giacca arrivò a Windsor. Mi stava perfettamente e potei quindi andare ad Ascot sapendo di essere rispettosamente e correttamente vestito. Con questo abito di società ho sempre preferito il cilindro grigio. Mi è stato detto che ho contribuito alla sua popolarità indossandolo ad Ascot e ora è difficile vedere alle corse dei cilindri in seta nera. Una delle regole di Scholte era che i suoi clienti, tutti, dovevano andare da lui in sartoria per le prove. Si rifiutava di andarli a servire a casa. Mi sono sempre conformato a questa regola e non ho mai chiesto che lui venisse a York House. Così ho rinunciato a una delle prerogative regali: non posso immaginare Giorgio V in un negozio di Londra. Erano i commercianti ad andare da lui. Mia madre, d'altra parte, amava lo shopping, specialmente i negozi d'antiquariato, e la vista della sua Daimler era piuttosto comune in centro Londra, parcheggiata di fronte a qualche negozio con piccole folle radunate a vederla uscire dall'auto con il suo carrellino e il suo grazioso sorriso. Devo avere ereditato da lei questo gusto, visto che ho sempre amato entrare e uscire dai negozi e scegliere quello che volevo sul posto. Non ho mai avuto un paio di pantaloni fatto da Scholte. Non mi piaceva il suo taglio: erano fatti, come normalmente accade in Inghilterra, per essere indossati con le bretelle e a vita alta. Così, visto che io preferisco indossare la cintura e non le bretelle, nello stile americano, me li sono sempre fatti fare da un altro sarto. Durante la guerra, quando ero governatore delle Bahamas, il mio guardaroba iniziò a consumarsi e, in una visita a New York, decisi di rintuzzarlo un po'. Andai da un sarto che si chiamava Harris che aveva fatto l'apprendista a Londra. Gli ho dato un mio vecchio paio di pantaloni londinesi e lui li ha replicati mirabilmente. Da quella volta ho sempre fatto fare i pantaloni a New York e le giacche a Londra, un compromesso interazionale che la duchessa, mia moglie, ha giustamente chiamato “Pantaloni da una parte all'altra del mare”. Penso di essere in buona compagnia, visto che lo stesso Brummell faceva fare le sue giacche da un sarto, il panciotto da un altro e i pantaloni da un terzo. Aveva solo un vantaggio rispetto a me: non era costretto ad attraversare l'Atlantico per i pantaloni. ----------------------------------------------------------------------------------------------------- |
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